DI

RICHARD FALK

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra le cose salienti accadute nella Palestina occupata degli ultimi anni c’è stata quella che ha interessato le pacifiche proteste settimanali contro il prosieguo della costruzione del Muro di Separazione che attraversa la Cisgiordania. Un luogo particolarmente attivo per la protesta è stato il paesino di Bil’in, vicino a Ramallah, ed è qui che la tendenza israeliana all’uso letale della forza per sopprimere le dimostrazioni non violente solleva profonde questioni morali e legali. Tali questioni si accentuano quando si pensa che già nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia (l’organo giudiziario principe delle Nazioni Unite), in una rara e pressoché unanime sentenza dichiarò illegale la costruzione del Muro nella Palestina occupata ed ordinò ad Israele di abbatterlo e di compensare i palestinesi per i danni arrecati. Israele contestò la sentenza, per cui il muro non solo è rimasto, ma la costruzione continua tuttora su segmenti ancora non completati.
È in tale contesto che il mondo dovrebbe analizzare la sconvolgente morte di Jawaher Abu Rahmah, avvenuta a Bil’in per soffocamento da inalazione di gas lacrimogeno il 1° gennaio 2011, senza nemmeno far parte della manifestazione. Alcuni testimoni infatti confermano che lei era lì soltanto come spettatrice della grande manifestazione di fine anno che ha visto la partecipazione di 350 attivisti israeliani e stranieri. Non c’era alcun motivo di usare un modo così violento per spezzare la protesta contro una peculiarità dell’occupazione che era stata dichiarata illegale da un autorevole organismo internazionale.
Destino vuole che il fratello della signora Rahmah fosse rimasto ucciso pochi mesi prima proprio da una bomboletta di gas lacrimogeno sparatagli a distanza ravvicinata. Ci sono poi molti altri racconti di incidenti causati dai metodi estremi che Israele usa per controllare la folla. Altri attivisti internazionali sono stati feriti e villanamente arrestati in passato, tra cui un Premio Nobel per la Pace, l’irlandese Mairead Maguire.
Queste morti dimostrano una generale attitudine da parte di Israele ad usare eccessiva forza contro i palestinesi sotto la loro occupazione. Soltanto un giorno dopo, un giovane palestinese disarmato, Ahmed Maslamani, è stato colpito a morte ad un checkpoint in Cisgiordania mentre si recava pacificamente al lavoro. Non aveva eseguito un ordine impartitogli in ebraico, lingua che non capiva.
Quando questa violenza letale è indirizzata contro civili disarmati che cercano di mantenere i diritti fondamentali alla loro terra, alla mobilità e all’autodeterminazione è evidente come lo stato di Israele sia diventato senza legge e quanto siano giustificate e necessarie le crescenti campagne mondiali di delegittimazione incentrate sul boicottaggio, il disinvestimento, le sanzioni (BDS).
Ogni episodio di eccessiva e criminale violenza israeliana non solo infligge sofferenze agli innocenti civili palestinesi, ma diventa pure una forma di martirio nella non-violenta guerra per la legittimità che i palestinesi hanno dichiarato sia all’interno della Palestina che sui virtuali campi di battaglia dell’opinione pubblica mondiale, con crescente successo.
Israele sa perfettamente come controllare le folle ribelli usando solo un minimo di forza. Lo ha dimostrato spesso nel modo in cui ha trattato con delicatezza, quando lo ha fatto, in diverse manifestazioni, i coloni che, questi sì, rappresentano una minaccia molto più grande all’equilibrio sociale che non le manifestazioni contro la costruzione del Muro.
È impossibile separare questo uso eccessivo della forza che Israele mette in campo contro i singoli palestinesi, dall’uso indiscriminato della forza che Israele ha politicamente adottato contro l’intera popolazione, come dimostrano le crudeli sanzioni che sono state imposte al popolo di Gaza da più di tre anni e dal modo criminale in cui Israele ha condotto attacchi per tre settimane sulla popolazione inerme di Gaza esattamente due anni fa. Non è forse ora che la comunità internazionale intervenga ed offra alla vulnerabile popolazione palestinese una qualche protezione contro la violenza di Israele?

Sotto l’affidarsi alla forza eccessiva come dottrina strategica che Israele persegue, si nascondono subdole idee razziste: che le vite israeliane valgono molte volte quelle palestinesi e che i palestinesi, come tutti gli arabi, capiscono solo il linguaggio della forza (sostanzialmente un’idea genocida lanciata di prepotenza anni fa, in un celebre libro La Mente Araba di Raphael Patai, pubblicato nel 1973). È anche parte di un metodo punitivo di occupazione, soprattutto a Gaza, dove i cablogrammi di Wikileaks confermano ciò che da tempo si sospettava: "Come parte del loro piano di embargo totale contro Gaza, fonti israeliane hanno confermato [a funzionari dell’ambasciata statunitense] in più occasioni che è loro intenzione mantenere l’economia di Gaza sull’orlo del collasso, senza proprio spingerla oltre il limite.” (cablo pubblicato il 5 gennaio 2011 sul Norwegian Daily).
L’allora Primo Ministro Ehud Olmert, in un discorso tenuto nel gennaio 2008 ha detto del blocco: "Non impediremo la fornitura di alimenti per bambini, di medicine per chi ne ha bisogno e di combustibile per salvare vite umane… Ma non c’è alcuna giustificazione per esigere che noi consentiamo agli abitanti di Gaza di vivere normali vite mentre bombe e razzi vengono lanciati dalle loro strade e cortili [verso il sud di Israele]”.
Questa è stata una chiara ammissione di punizione collettiva della popolazione civile fatta dal leader politico israeliano del momento, che violava platealmente l’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra che ciò vietava nel modo più assoluto. Cotanta madornale criminalità dovrebbe costringere i leader politici israeliani a sottoporsi a meccanismi internazionali per far sì che i singoli responsabili di crimini contro l’umanità siano perseguibili. È altresì evidente che il blocco è punitivo, e non una risposta alla violenza transfrontaliera che, per inciso, ogni volta è stata più distruttiva di vite umane e proprietà palestinesi che non israeliane.
Aldilà di questo, la leadership di Hamas a Gaza, fin dalla sua elezione, aveva ripetutamente tentato di stabilire un cessate il fuoco lungo il confine, ed una volta concordato a metà del 2008 con l’aiuto dell’Egitto, le vittime di ambo le parti si sono quasi azzerate. Questo cessate il fuoco è stato provocatoriamente interrotto da Israele il 5 novembre 2008 per preparare il terreno al lancio di attacchi massicci contro Gaza, che durarono tre settimane, dopo essere iniziati il 27 dicembre 2008.
Durante quella guerra, se si può chiamare tale un conflitto a senso unico di questa portata, la criminalità delle tattiche usate dalle Forze di Difesa Israeliane sono state monitorate da Amnesty International e Human Rights Watch. Non c’è più alcuna ragione che metta in dubbio la fondatezza delle accuse di criminalità associata a quelle tre settimane di attacchi sulla popolazione e infrastrutture civili, comprese scuole ed edifici delle Nazioni Unite. Tutto ciò è stato largamente documentato sul Rapporto Goldstone, stilato dopo una particolareggiata inchiesta guidata da John Dugard, sotto gli auspici della Lega Araba.
Dettagliati resoconti, evidenziati dal Rapporto Goldstone, hanno correttamente rilevato che l’impressione complessiva lasciata dagli attacchi è stata come la prosecuzione di una certa “dottrina Dahiya”, attribuita ad un generale israeliano durante la guerra del Libano nel 2006, in cui la distruzione dall’alto di un quartiere di Beirut sud da parte di Israele, fu una risposta volutamente eccessiva, a scapito della società civile, con la scusa che la zona fosse una presunta roccaforte di Hezbollah, e in risposta ad un incidente di frontiera in cui dieci soldati israeliani persero la vita in uno scontro a fuoco con guerriglieri Hezbollah.
Il rapporto Goldstone del 2009 ricorda che il generale Gadi Eisenkot disse: "Cosa è successo nel quartiere Dahiya di Beirut nel 2006 accadrà in ogni villaggio da cui si spara su Israele. Si applica una forza sproporzionata su di esso per causarvi gravi danni e distruzione. Dal nostro punto di vista, questi non sono villaggi di civili, ma basi militari. […] Questo non è un consiglio. Si tratta di un piano. Ed è stato approvato".
In effetti, le infrastrutture civili di avversari come Hamas o Hezbollah sono trattati come legittimi obiettivi militari, il che non è solo una evidente violazione delle più elementari norme del diritto in guerra e della morale universale, ma l’ammissione di una dottrina violenta che deve essere chiamata con il suo proprio nome: terrorismo di stato.
Siamo giunti ad una fase in cui i soprusi dell’occupazione israeliana, che ormai dura da più di 43 anni, si ripropongono quotidianamente in molteplici violazioni del diritto umanitario internazionale. Nella sua essenza e per progetto, l’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza dovrebbe essere intesa e condannata come terrorismo di stato, da come si rivela sia nella forma che nella sostanza.

Richard Falk, professore emerito di Diritto Internazionale all’Università di Princeton è anche autore di Esplorazione del limite del tempo: le prospettive di ordine mondiale; Crimini di guerra: l’Iraq e il costo della guerra: Diritto Internazionale delle Nazioni Unite e Ordine Mondiale dopo l’Iraq. È l’attuale relatore speciale dell’ONU per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati.
Fonte: www.veteranstoday.com
Link: http://www.veteranstoday.com/2011/01/10/falk-israel’s-violence-against-separation-wall-protests-–-along-the-road-of-state-terrorism/
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da GIANNI ELLENA