L’origine della casta sacerdotale egizia e dei suoi faraoni rimane un enigma storico intricato da sciogliere poiché la sua formazione risale a tempi così remoti da non averci lasciato sufficiente memoria archeologica. I documenti di cui disponiamo infatti, sono solo quelli emersi dalla tradizione egizia, la quale, rimanda l’instaurazione dell’elite dominante più antica d’Egitto ai c.d. “seguaci di Horus”. Questi ultimi però, stando alla scuola di pensiero ortodossa, non sarebbero mai realmente esistiti in quanto parte integrante della mitologia egizia. Pertanto, l’unica soluzione del mistero sembra poter provenire dall’area della c.d. archeologia eretica, una disciplina che contempla da tempo la possibilità secondo cui i seguaci di Horus potrebbero essere esistiti veramente. Si sarebbe trattato degli ultimi superstiti di un evoluto gruppo etnico non originario dell’Egitto che avrebbe svolto il ruolo di civilizzatore sugli altri popoli dopo l’ultima glaciazione. Un argomento quindi che si presenta come un vero e proprio “campo minato” della ricerca archeologica, dove come anzidetto, le certezze sono davvero poche. La genesi della prima aristocrazia egizia è così rimasta confinata da tempo nell’enorme calderone delle congetture accademiche ed eterodosse. Tuttavia, dei punti fermi ci sono ed è possibile partire da questi per trarre qualche interessante conclusione.
Le migrazioni dei popoli durante il processo di deglaciazione
In tempi assai remoti la sopravvivenza della civiltà umana è stata messa a dura prova dagli assestamenti climatici e geofisici che seguirono all’era glaciale. La nostra specie quindi precipitò più volte nel caos proprio come descritto dalle tradizioni che riportano la storia del c.d. diluvio universale. Pertanto è assai probabile che nel processo di “ricostruzione”, l’etnia più avanzata abbia svolto un ruolo guida sul resto dei popoli del globo. Ciò spiegherebbe infatti l’origine comune delle credenze più antiche. Si pone quindi necessario ripercorrere brevemente gli eventi catastrofici legati all’ultima glaciazione per arrivare poi a comprendere se la tradizione egizia possa avere o meno un fondo di verità storica.
Circa 20.000 anni or sono cominciò il processo di deglaciazione colpevole di aver riversato enormi masse d’acqua su tutti i continenti provocando così l’innalzamento degli oceani di ben 130 metri. Si trattò di uno scioglimento dei ghiacci violento che si manifestò in diverse epoche con brusche inondazioni improvvise. I glaciologi infatti, hanno recentemente supposto che l’origine di molte catastrofi ambientali locali tramandateci dalle antiche tradizioni (avvenute in periodi e località diverse) sia da attribuire al cedimento delle c.d. “dighe di ghiaccio” (citaz. Professor Cesare Emiliani, “Placet Earth”, p.543) naturali che si formarono durante il processo di scongelamento dei ghiacciai. Queste ultime costituirono quindi una sorta di enormi muraglie di contenimento per gli immensi bacini d’acqua che si andavano accumulando al loro interno. In seguito però le “dighe” di ghiaccio cominciarono a cedere sotto la pressione crescente dell’acqua a cui si contrapponevano pareti di ghiaccio sempre più sottili. E alla fine tutta l’acqua dei ghiacciai si riversò bruscamente sui continenti cagionando diversi terribili inondazioni. La più violenta di tutte si sarebbe verificata intorno al 12.000 a. C.. (ibidem) con una estensione di livello globale. Ecco cosa si verificò esattamente secondo il professor Cesare Emiliani: “Durante l’ultima era glaciale, il ghiaccio raggiunse la sua massima espansione 20.000 anni fa. Quasi immediatamente cominciò la deglaciazione, che progredì rapidamente. Talvolta l’acqua di scioglimento formava un bacino dietro a una diga di ghiaccio e quando la diga crollava la conseguenza era un enorme ondata d’acqua. Un’alluvione con questa origine accadde nell’America nord-occidentale 13.500 anni fa quando una diga di ghiaccio che tratteneva 2000 chilometri cubici d’acqua di scioglimento (il lago Missoula) crollò. [..] Come risultato dell’alluvione che formò la Scabland, il livello del mare si alzò molto rapidamente di almeno venti metri. Già 12.000 anni fa più del 50% del ghiaccio era ritornato all’oceano, e il livello del mare si era alzato di quaranta metri.” La massa d’acqua imbrigliata dal freddo doveva essere veramente impressionante dal momento che la formazione delle cappe di ghiaccio potevano arrivare fino a 4000 metri (“Civiltà sommerse”, p.94) con un estensione assai superiore a quella dell’attuale antartico (C.Emiliani, planet earth, p.543). Il peso del ghiaccio sulla superficie della terra creò poi sotto di se delle depressioni a forma di coppa profonde circa 1 km.
Il calore proveniente dall’interno della terra rimase così intrappolato sotto le coltri di ghiaccio che cominciarono a sciogliersi dal fondo fino a formare immensi laghi di acqua dolce. Per due volte, in Nordamerica e in Siberia occidentale, questi laghi sfondarono i loro margini di ghiaccio e determinarono enormi e disastrose inondazioni. Sappiamo infatti che il livello del mare s’innalzò bruscamente a livello globale in almeno due occasioni, la prima si verificò circa 13.000 anni fa mentre la seconda appena duemila anni dopo (Cesare Emiliani, “Scientific Campanion, p.251, 157). Sulla stessa linea di pensiero si pone anche il professor John Shaw, un insigne professore di scienze della terra dell’Università di Alberta (Canada) che si è guadagnato fama internazionale per essere uno dei più autorevoli esperti al mondo su l’ultima era glaciale. Si tratta dell’autore di un impressionante numero di ricerche e di pubblicazioni sulle cause che furono all’origine delle più recenti catastrofi naturali legate allo scioglimento dei ghiacci. Le sue seguenti conclusioni sull’argomento godono quindi della massima attenzione di tutti gli esperti: “Sembra che le grandi coltri glaciali che coprivano il Canada, la maggior parte della Scandinavia e gran parte della Russia settentrionale invece di essere formate da ghiaccio puro e roccia, risultassero formate a uno stadio tardo da roccia alla base, e poi da un lago o bacino di acqua subglaciale, e infine dal ghiaccio. Ed è possibile che quando si verificò il riscaldamento, la parte più alta del ghiaccio cominciasse a sciogliersi e la zona di ablazione e la quantità di acqua subglaciale diventassero sempre più grandi. Eppure la coltre di ghiaccio deve aver continuato a sigillare i margini tutt’intorno fino a quando un po’ come avviene normalmente per una comune tazza del water, non si aprì la valvola e l’acqua arrivò giù di colpo. In Canada ad esempio (almeno in una occasione) l’acqua uscì letteralmente rigurgitando da tutte le parti, eccetto che a est dello stretto di Hudson dove si trovava una grande barriera di ghiaccio. Così l’acqua uscì verso sud attraverso San Lorenzo, i Finger Lakes, il corso del Red River e molte altre località. In questo modo venne introdotta negli oceani una grande quantità d’acqua che deve avere determinato inondazioni della durata di settimane”. Secondo l’autorevole parere di Shaw si verificarono così diverse “superinondazioni globali” precedute e succedute nel tempo da altre alluvioni locali di minore entità. Lo scioglimento dei ghiacci avrebbe così seguito le dinamiche burrascose a “gradini” da cui prende il nome la teoria elaborata in proposito dal professor Shaw. Uno dei misteri geoclimatologici rimasti irrisolti riguarda invece la “bizzarra” correlazione tra il periodo di glaciazione e il concomitante incremento dell’attività vulcanica (“Civiltà Sommerse”, p.97).
In conseguenza dei continui mutamenti climatici e ambientali che seguirono alla fine dell’ultima era glaciale, le popolazioni che si erano insediate in Mesopotamia e nel Mar Rosso (quando il golfo persico era ancora una terra emersa), furono costrette a traslocare altrove. E poiché la religione egizia presenta imbarazzanti tratti in comune con quella mesopotamica, è molto probabile che la sua casta sacerdotale derivi la propria origine razziale dalle migrazione delle genti provenienti proprio da tale regione. Gli egizi e il popolo sumero della Mesopotamia infatti, seppur con appellativi diversi adoravano le stesse identiche divinità lunari (“Impronte degli Dei”, G. Hancock, ediz. Corbaccio, p.176), ovvero proprio quelle che risultano essere le più antiche. Il Dio egizio Thot ad esempio, trova il suo esatto corrispettivo nel Dio sumerico Sin (Archaic Egipt, cit., p.38). Ed ecco infatti cosa scrisse a tal proposito l’eminente egittologo Sir Wallis Budge: “La somiglianza tra i due Dei è troppo forte per essere accidentale…sarebbe sbagliato ritenere che gli egizi lo mutuarono dai sumeri o i sumeri dagli egizi, ma si potrebbe avanzare l’ipotesi che le classi colte di entrambi i popoli acquisirono i sistemi teologici da una fonte comune ma estremamente antica”. E ciò spiegherebbe anche il fatto per cui l’aristocrazia egizia fosse etnicamente diversa dal resto della popolazione su cui governava. Essa infatti aveva un gruppo sanguigno del tipo A (associato normalmente alle c.d. razze ariano-caucasiche) a dispetto di una popolazione locale caratterizzata pressoché integralmente dal gruppo “0” (citaz. Murry Hope, “Il Segreto di Sirio”, ediz. Corbaccio, 1997). Tale insolita differenza nel gruppo sanguigno lascia quindi ragionevolmente supporre che i faraoni discendessero da una razza dominante che regnò anticamente anche sull’area mesopotamica dove diede origine ad una delle più grandi civiltà della storia antica. Peraltro, lo stesso tipo di scoperta è stata effettuata anche sulle mummie incas (vedi capitolo archeologia proibita) confermando così l’ipotesi che rintraccia l’opera civilizzatrice post-glaciale in una specifica etnia.
Un antica razza dominante
Nel sito archeologico maltese di Hal Saflieni sono stati ritrovati dei crani dalle caratteristiche molto interessanti appartenuti ad un ceppo razziale diverso da quelli finora studiati. Alcuni dei reperti presentano infatti caratteristiche dolicocefale naturali e il loro ritrovamento in uno dei più antichi luoghi di culto megalitici lascia presupporre che siano appartenuti alla stirpe sacerdotale identificata dai popoli egizi e mesopotamici con l’appellativo di sacerdoti-serpente (visto l’anomalo aspetto che li caratterizzava). Questi ultimi avrebbero vissuto come una casta chiusa per diversi millenni finendo poi con il mescolarsi all’aristocrazia degli altri gruppi etnici locali.
Fig.1 Foto di un confronto tra un cranio normale e uno dolicocefalo di Hal Saflieni
Gli strani crani dolicocefali (caratterizzati da uno sproporzionato allungamento della parte posteriore) scoperti a Hal Saflieni sono stati rinvenuti dagli archeologi all’interno di un tempio sotterraneo dedicato al culto della Dea madre, (un credo religioso poi mutuato dagli egizi con la figura della Dea Iside) insieme ad una piccola statua di una Dea dormiente associata ad un reperto con sopra inciso un serpente. Tali particolari resti umani sembrano corrispondere perfettamente a quelli riportati alla luce in Egitto dall’egittologo W. Emery e potrebbe quindi trattarsi di reperti chiave per comprendere il collegamento etnico-culturale esistito in origine tra la casta sacerdotale egizia e quella mesopotamica. L’acqua del pozzo sacro era considerata il simbolo della Dea madre, della fecondità e del principio femminile, la caverna del sito quindi era considerata dalla casta sacerdotale una metafora del grembo materno e dell’acqua rigenerativa contenuta nel sacco amniotico. L’ipogeo inoltre è famoso per ospitare numerosi alveari di api di cui però non è possibile risalire con certezza all’epoca del loro primo insediamento (stimato dalle datazioni ortodosse a non prima del IV secolo d.c.). Resta però il fatto, che ritroviamo il concetto di pozzo sacro anche all’interno delle cattedrali gotiche legate alla cultura esoterica che si richiama alla tradizione antidiluviana mentre l’ape venne addirittura adottata come simbolo regale egizio (e in seguito dai re Merovingi di origine ebraica come Dagoberto II). Troviamo infatti alveari anche all’interno di in una delle cattedrali gotiche più misteriose del mondo, la Cappella gotica di Rosslyn (vedi capitolo templari).
A sin. foto della statuina trovata nell’ipogeo che raffigura la Dea Madre dormiente – a destra il simbolo dell’ape del sigillo reale merovingio di re Dagoberto II riproducete il simbolo oggi noto come stella ebraica a sei punte.
L’esistenza dei crani dolicocefali maltesi venne accertata solo nel 1985 ed in seguito vennero esposti per qualche tempo nel Museo Archeologico della Valletta. Ultimamente però sono stati rimossi e chiusi in un deposito del museo non accessibile al pubblico (citaz. servizio realizzato da Adriano Forgiane e da Vittorio di Cesare per Hera edizioni). Di essi rimangono comunque le fotografie scattate dal dott. Anton Mifsud e dal suo collega, il dott. Charles Savona Ventura (fig.1) nonchè i saggi di approfondimento che scrissero a tal proposito dopo avere esaminato e documentato una intera collezione di teschi dalle caratteristiche molto particolari. Le anomalie più interessanti riscontrate riguardano l’assenza delle normali linee di saldatura cranica, poiché tale peculiarità anatomica sembra essere all’origine sia dell’allargamento delle pareti temporali (eccezionalmente brachicefali) che dell’allungamento della scatola cranica nella parte posteriore (eccezionalmente dolicocefali).
Foto di un cranio dolicocefalo incas
Al termine di una conferenza stampa organizzata nel 2006 dal dottor Robert Zammit (HERA n.18, 2006, pag. 14 -I crani di Malta) in veste di responsabile dell’Ente Provinciale Turismo di Malta, una delegazione della rivista HERA (specializzata in temi come l’archeologia proibita) ottenne il permesso di accedere al vicino museo archeologico della Valletta per esaminare gli straordinari reperti. E alla presenza dello studioso Mark Anthony Mifsud, gli inviati di Hera poterono confermare che tra i crani trovati nell’ipogeo di Hal Saflieni ve ne era uno particolarmente raro. Presentava infatti una dolicocefalia atipica e molto pronunciata, ovvero uno sproporzionato allungamento della parte posteriore della calotta cranica nella più completa assenza della sutura mediana tecnicamente detta linea “sagittale”. Un particolare anatomico considerato quasi impossibile dalla letteratura medica internazionale in quanto eccetto quelli trovati anche in Egitto (citaz. W. Emery, “Arcaic Egipt”) e in sudamerica (poi dimenticati e abbandonati nei depositi) , non esistono reperti analoghi. E come già accennato la mancanza della sutura cranica sagittale potrebbe essere quindi all’origine della conformazione dolicocefala tipica della stirpe umana che anticamente si impose come casta dominante. Tale tipo di patologia può essere fatta risalire al culto esasperato della purezza del sangue in uso presso alcuni antichi lignaggi regnanti e al concepimento tra consanguinei. Del resto, gli studi genetici hanno dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che la procreazione tra membri dello stesso clan familiare è la causa primaria delle malformazioni genetiche naturali.
Il mistero della caverna delle ossa
Il sottosuolo dell’ipogeo di Hal Saflieni venne esplorato per la prima volta da Sir Themistocles Zammit agli inizi del ‘900 con lavori di scavo che riportarono alla luce i resti di circa settemila persone sepolte in uno strato di terriccio rosso (J.D. Evans, The Preistoric Antiquities of The Maltese Islands: A survey . University of London, 1971, 58; Trump, op. cit.,7; Colin Renfrew, “Before Civilization: The Radiocarbon Revolution and Prehistoric Europa, London, Pimlico, 1999, 63). Di quel ritrovamento però, oggi restano solo sei teschi stipati nei sotterranei cavernosi del National Museum of Archeology di Malta senza che nessuno sappia indicare che fine abbia fatto il resto dell’ingente mole di reperti. I funzionari del Museo affermano infatti che sono semplicemente “scomparsi” (Civiltà sommerse p.424). Gli scavi in questione vennero svolti sotto la direzione dell’archeologo gesuita Emmanuel Magrì in veste di commissario del museo della Valletta. Durante i lavori di dissotterramento i ricercatori trovarono le migliaia di scheletri completamente disarticolati insieme a frammenti di vasellame e di altri piccoli oggetti (Civiltà sommerse p.458 citaz. Dell’opera di J. D. Evans, 45) che testimoniavano il passaggio di un cataclisma marino improvviso di notevoli dimensioni come uno tsunami. I dogmi accademici però sono destinati a sopravvivere grazie alla “casuale” sparizione delle prove decisive. E non appena lo studioso gesuita terminò di redigere l’inventario dei reperti dissotterrati venne fatto trasferire dall’ordine Gesuita in Tunisia dove morì improvvisamente (1907).
Pertanto, il professor Magrì non riuscì mai a portare a termine la pubblicazione del suo dettagliato rapporto sui preziosi ritrovamenti archeologici del sito e il dossier che aveva redatto sparì subito dopo il suo decesso (ibid J.D. Evans, 45. – David Trump “Malta Archeological Guide. Valletta, 1990, 67). Si trattava forse di documentazione in grado di smentire una volta per tutte la datazione ufficiale del sito?
L’occultamento scientifico delle prove
Nell’autorevole Archeological Guide di Malta (“Civiltà sommerse” p. 488-9) scritta da David Trump nell’anno 2000 viene affermato: “a osservare la parete di fronte alla scala che scende al livello inferiore. Linee scure di pigmento nero tratteggiano un’immagine che in apparenza è quella di un toro. E’ eseguita con una certa rozzezza e la testa e le spalle non si sono conservate. Che si tratti di un disegno antichissimo e intenzionale è dimostrato dal fatto che la tinta ocra applicata alla parete s’interrompe esattamente all’altezza della linea nera”. Ma il vero motivo per cui la testa e le spalle dell’animale non si sono “conservate” è che il “toro” dell’ipogeo è stato parzialmente rimosso per espresso ordine del direttore del dipartimento dei musei (Dossier Malta, Anton e Simon Misfud, 1997, p.168). Pertanto, quello che Trump definisce “toro”, Misfud preferisce chiamarlo “bisonte” in quanto originariamente era stato disegnato proprio quest’ultimo, ovvero il membro di una specie animale europea estintasi dopo l’ultima era glaciale. Peraltro, a supporto dell’interpretazione di Misfud, nell’ipogeo sono stati trovate anche altre pitture realizzate con il nero di biossido di manganese che raffigurano senza dubbio il bisonte europeo del pleistocene, un animale caratterizzato da una piccola gobba sul dorso, corna minute e coda corta (Megary, T, 1995, Society in Preistory, p.261). Insieme al cavallo infatti, il bisonte era un tema figurativo rupestre assai ricorrente nel periodo del Paleolitico europeo.
Ma la circostanza più scandalosa è che la cancellazione parziale del disegno conservato in migliori condizioni avvenne a causa di una disputa accademica in cui il toro era stato dichiarato essere in realtà un bisonte da molti ricercatori. Il direttore del sito archeologico Mallia pensò allora di porre fine alle contestazioni con un colpo di mano facendo sparire una volta per tutte la parte della pittura rupestre che svelava la vera identità dell’animale rappresentato. Gli esami al radiocarbonio condotti su alcuni reperti provenienti dal sito maltese di Ghar Dalam indicano con certezza la presenza umana a Malta già intorno al 5200 a.C., confermando l’esistenza del luogo di culto in pieno periodo neolitico.
I sacerdoti serpente della Dea madre
Foto di una antica statuina sumera con le fattezze dolicocefale dei sacerdoti serpente
In età preistorica entrambe le isole di Malta e Gozo furono sede di importanti luoghi di culto dediti alla venerazione della c.d. dea madre. Tali siti divennero così veri e propri centri taumaturgici dove praticare incontri rituali con i sacerdoti a cui la popolazione attribuiva capacità curative. E il ritrovamento di crani dolicocefali naturali proprio all’interno dei templi megalitici lascia ragionevolmente supporre che essi siano appartenuti ai rappresentanti del clan dominante che esercitava tecniche terapeutiche presso quei luoghi. Anticamente infatti, gli esclusivi depositari del sapere erano i membri delle caste sacerdotali, considerati per tale ragione un “ponte” con il divino o vere e proprie divinità a cui riconoscere i massimi poteri. Pertanto, il culto dei sovrani divini tramandato fino ai faraoni egizi (considerati appunto sommi sacerdoti) può essere debitamente fatto risalire proprio all’arcaica tradizione dei re-sacerdoti di ancestrale memoria.
Il simbolo del serpente inoltre, compare sin dalla notte dei tempi associato alla conoscenza (basti pensare al simbolo del caduceo ancora riportato sulle moderne ambulanze) e alle caste sacerdotali. Il motivo di una simile associazione però è tuttora un mistero a quale forse si può tentare di fornire una spiegazione proprio grazie al sorprendente ritrovamento dei crani dolicocefali naturali. Tali anomali reperti infatti, sembrano voler testimoniare la presenza di malformazioni genetiche nel clan dei re sacerdoti idonee ad avergli fatto attribuire l’appellativo di “sacerdoti serpente”. Poiché come è facile intuire, un cranio dolicocefalo molto sviluppato è una patologia a cui doveva corrispondere lo stiramento dei lineamenti e dei muscoli facciali determinando sembianze serpentine (occhi, labbra e orecchie allungate). Peraltro, l’ipotesi che i soggetti dal cranio dolicocefalo naturale costituissero l’elite della popolazione in epoca megalitica può dirsi confermata dai reperti archeologici. L’uso del bendaggio cranico rituale in età infantile infatti, venne utilizzato in epoca remota sia dagli incas che dagli egizi come tecnica per ottenere crani dolicocefali simili a quelli (molto più rari) di origine naturale che oggi sappiamo essere esistiti veramente. L’arcaica tecnica della manipolazione della forma della testa deve quindi essere stata concepita come strumento per somigliare fisicamente ai membri della casta dominante. E’ quindi legittimo supporre che a causa del loro millenario isolamento genetico dal resto della popolazione, i c.d. sacerdoti “serpente” abbiano finito per costituire una vera e propria razza a parte (salvo che non lo fossero già in origine). Tale ipotesi infatti trova conferma e supporto nel lavoro d’indagine effettuato dagli archeologi maltesi a cui fu consentito di esaminare materialmente i reperti in questione. Anthony Buonanno e Mark Mifsud quindi, pur sottolineando il fatto di non aver avuto modo di effettuare gli esami del DNA o del C-14, hanno comunque ritenuto di potere concludere con certezza che i crani naturalmente dolicocefali dovevano appartenere ad una razza diversa e quindi non autoctona del luogo. Una stirpe di cui abbiamo perso le tracce probabilmente a causa di una loro successiva ed inevitabile assimilazione con il resto dell’aristocrazia indigena.
La fusione della stirpe dominante con le altre razze
Il professor Walter. B. Emery (1903-1971), un illustre egittologo che condusse numerose operazioni di scavo in Egitto (in particolare a Saqqara) negli anni ’30 scrisse un volume molto interessante. In “Archaic Egypt” infatti, egli documentò il ritrovamento a Saqqara di reperti umani dal cranio dolicocefalo risalenti all’epoca pre-dinastica. E proprio come sostenuto dai ricercatori maltesi egli scoprì che non poteva trattarsi di una stirpe autoctona in quanto, non solo possedevano un cranio più grande rispetto a quello dell’etnia locale, ma presentavano anche molti altri caratteri genetici atipici per il clima del luogo, come capelli chiari, corporatura molto più robusta della media e una statura superiore. Emery dichiarò quindi oltre ogni ragionevole dubbio che tale ceppo razziale non poteva essere originario dell’Egitto (come sappiamo non esserlo di Malta) ma che ciononostante aveva svolto in loco un ruolo sacerdotale e governativo di prim’ordine. Aggiunse poi che tale gruppo etnico si tenne a distanza dai ceti sociali più bassi accettando di unirsi carnalmente solo con la classe aristocratica locale. Tale gruppo etnico venne in seguito identificato dall’eminente egittologo con la casta dominante che la tradizione egizia chiamò con l’appellativo di Shemsu Hor, ovvero i “Seguaci di Horus” (da cui deriva l’antico culto del sole e della dea madre), oggi ritenuti invece personaggi puramente mitologici. Gli Shemsu Hor sono menzionati dalla tradizione come classe sacerdotale dominante nell’Egitto predinastico (fino al 3000 a.C. circa), e la loro esistenza è documentata sia nel papiro di Torino quanto nelle liste dei re di Abydos. È inoltre interessante notare che lo stesso W. Emery scrisse: “verso la fine del IV millennio a.C. il popolo noto come “Seguaci di Horus” ci appare come un’aristocrazia altamente dominante che governava l’intero Egitto” (cit. “Archaic Egipt”). La teoria dell’esistenza di questa razza del resto risulta suffragata dalla scoperta (a nord dell’Alto Egitto) di antiche tombe risalenti al periodo pre-dinastico con all’interno gli anomali reperti umani anzidetti.
Mummie che testimoniano oltre ogni ragionevole dubbio l’esistenza in epoca preistorica di una stirpe di individui con differenze anatomiche talmente marcate da non poter essere associati allo stesso ceppo razziale del popolo egizio autoctono. E la fusione tra le due razze avvenne probabilmente solo durante l’unificazione dei due regni d’Egitto. In conclusione quindi, gli strani crani dolicocefali egiziani trovano corrispondenza negli straordinari reperti umani trovati a Malta. Il suddetto ceppo razziale sacerdotale dal cranio lungo e i caratteri nordici sembra poi essere scomparso per assimilazione sia a Malta che in Egitto nello stesso identico periodo, ovvero tra il 3000 e il 2500 a.C.. Esistono poi indizi circa l’esistenza della stirpe dei sacerdoti “serpente” anche in medio-oriente, e più precisamente all’interno del ceppo ariano dei Mitanni. Questi ultimi infatti venivano indicati dagli egizi con il nome di “Naharin”, un termine che significa “quelli del serpente” (da Nahash, serpente). Inoltre le caratteristiche anatomiche della loro casta regnate presentava importanti analogie con quelle descritte da W. Emery (capelli chiari, alta statura e corporatura robusta) riguardo ai reperti umani trovati in egitto che egli associò alla figura mitica dei c.d. “seguaci di Horus”.
Del resto, la tradizione dei “sacerdoti serpente” (cfr. HERA n.13 e n.14) trae storicamente origine proprio dal Medioriente, con il suo centro principale di sviluppo nel Kurdistan. E intorno al 5000 a.C. infatti, la cultura matriarcale mitannica di Jarmo rappresentava le dee madri come divinità dal volto dai tratti serpentiformi e con il cranio eccezionalmente dolicocefalo, ovvero con le stesse fattezze della stirpe dei sacerdoti serpente egizi e maltesi. I membri di questa particolare casta sacerdotale vennero considerati dal resto delle popolazioni medio-orientali come semi-dei civilizzatori in perfetta corrispondenza di quanto stava avvenendo nel frattempo in Egitto per i c.d. seguaci di Horus. E il ritrovamento nella terra del Nilo delle statuine dedicate al culto della dea madre dal volto di vipera testimonia proprio questo assunto. Peraltro, la datazione ufficiale delle sculture in questione le fa risalire esattamente al periodo arcaico in cui sarebbero arrivati in Egitto i c.d. seguaci di Horus. E’ quindi lecito concludere che i sacerdoti serpente furono il ceppo razziale più antico e progredito del mondo antico poiché troviamo traccia della loro effettiva esistenza sia in Egitto (successivamente a migrazioni risalenti al 6000/4000 a.C. – cfr. HERA pag.10) che sull’isola di Malta. La loro stirpe sembra poi essere sparita nel nulla intorno al 2.500 a.C., periodo in cui molto probabilmente cominciarono a fondersi con le aristocrazie locali. Ma ciononostante, il simbolo per eccellenza della casta dei faraoni egizi continuò ad essere il serpente per tutti i millenni che seguirono e basta osservare la riproduzione di un faraone qualsiasi per rendersene conto. Il loro copricapo all’altezza della fronte era caratterizzato dalla raffigurazione della testa di un cobra mentre la barba del faraone veniva annodata in modo da sembrare la coda di un serpente.
Anche il culto della Dea madre continuò ad essere tramandato dai sacerdoti egizi attraverso la figura della Dea Iside rappresentata a tale scopo con un bambino in grembo. Peraltro, il faraone Amenofi III ebbe come seconda moglie di nome Tadu-Heba una principessa mitannica da cui concepì Akhenaton, il faraone dolicocefalo che riportò l’antico culto del sole (la cui origine risalirebbe ai seguaci di Horus) al di sopra di tutte le altre divinità del consolidato pantheon egizio tebano.
Durante il suo breve regno infatti, il faraone eretico rivoluzionò l’arte egizia imponendo ovunque uno stile dolicocefalo di cui oggi disponiamo ampia documentazione. Lui stesso quindi, quanto sua moglie Nefertiti e i suoi figli possedevano vistosi crani dolicocefali con il volto dai tratti serpentiformi. Akhenaton e la sua famiglia insomma erano indubbiamente caratterizzati dalle stesse anomalie anatomiche della stirpe predinastica menzionata dall’egittologo W. Emery (nota nel mondo antico come sacerdoti serpente) nel suo ponderoso volume “Arcaic Egipt” (presenti anche a Malta e in sudamerica).
Un misterioso limbo di 300 anni
Secondo l’archeologia ortodossa i crani anomali di Malta risalirebbero al 2.500 a.C. (nessuno però si è mai preso la briga di effettuare o autorizzare esami al C-14 e quindi in realtà potrebbero essere molto più antichi) una data in cui la storia megalitica dell’isola sembra cessare di colpo. Gli archeologi suggeriscono addirittura che Malta a partire dal 2500 a. C. sia rimasta disabitata per circa 300 anni, ovvero fino a quando non venne colonizzata dai fenici. Un popolo che continuò ad edificare templi sull’isola dedicati al culto della Dea Madre, da loro chiamata “Astarte”, la Dea dal volto di serpente. Ma a dispetto di quanto affermato dalla teoria maggioritaria vi sono fondate ragioni per ritenere il periodo megalitico molto più antico di quanto datato finora. Graham Hancock infatti (citaz. “Civiltà sommerse”), dopo avere effettuato accurati studi e ripetute immersioni nei vicini fondali ha dichiarato di avere scoperto che il sito preistorico di Hal Saflieni è in realtà molte migliaia di anni più antico di quanto finora stabilito per convenzione a livello accademico. E le prove raccolte in proposito sono addirittura schiaccianti. Ha scoperto ad esempio che nella odierna zona portuale di Grand Harbour sorgevano i resti di un tempio megalitico che venne inghiottito dal mare dopo l’ultima glaciazione (p.424 Civiltà sommerse). E stando alla documentata testimonianza di Jean Quintinus, (anno 1536) Hancock avrebbe perfettamente ragione in quanto il sito preistorico nel XVI sec. si estendeva ancora lungo tutto il porto fino a scomparire negli abissi marini (citaz. Malta, Echoes of Plato’s Island, The preistoric society of Malta, 2000, 42). Un ulteriore conferma in tal senso ci viene fornita dallo studioso Megeiser (anno 1606), il quale affermò di essere riuscito a vedere una parte della antica costruzione composta da blocchi rettangolari di incredibili dimensioni (ibid). E tali dichiarazioni risultano addirittura corroborate dalle asserzioni di molti altri ricercatori che visitarono il sito archeologico nell’800. Omai però vi è più alcuna traccia dei reperti in questione a causa della loro rimozione durante i lavori di costruzione del porto. Ma se lo studioso avesse ragione significa che il passaggio dall’epoca megalitica a quella fenicia non sarebbe stato di soli 3 secoli, ma avrebbe avuto bensì un intervallo di diverse migliaia di anni. E cioè, proprio il periodo di tempo che secondo i teorici dell’archeologia “eretica”, separò di netto la negletta civiltà preistorica antidiluviana dall’inizio della civiltà conosciuta. Ed ecco ad esempio cosa ha affermato testualmente in proposito (“Civiltà sommerse”p.479) l’archeologo maltese Anton Misfud: “L’accumulo dei resti umani nell’ipogeo di Hal Saflieni non sarebbe il risultato di una sepoltura rituale, ma le ossa sarebbero state trascinate nel labirinto dell’ipogeo dall’azione dell’acqua su una matrice di terra rossa e terriccio”. Le ossa infatti vennero ritrovate violentemente frantumate e scomposte insieme a quelle degli animali e ad ogni altro genere di detrito in un deposito omogeneo e non stratificato per diverse epoche. Ciò significa inevitabilmente che i reperti furono spinti nell’ipogeo durante una unica grande inondazione che può essersi verificata solo in un epoca post-glaciale molto più remota di quella attualmente stabilita. Una circostanza che testimonia l’esistenza del tempio in data molto anteriore al 3000 a. C..
Una simile rilettura archeologica della storia spiegherebbe inoltre il fatto per cui l’isola rimase disabitata per così lungo tempo in coincidenza del passaggio tra una civiltà e l’altra. Il vuoto storico tra le due ere insomma, può essere dovuto al passaggio dell’ultimo grande cataclisma post-glaciale. Ma purtroppo, come spesso accade in questi casi, tale ipotesi non può neppure essere presa in considerazione dal mondo accademico in quanto incompatibile con il dogma ortodosso secondo cui prima del 3000 a.C. non può essersi sviluppata alcuna civiltà socialmente evoluta. In ultima analisi, gli straordinari crani dolicocefali naturali di Malta sono reperti ufficialmente rimasti incompresi, ma la loro “ingombrante” presenza testimonia l’esistenza storica di un arcaico lignaggio sacerdotale che sembra essere rimasto geneticamente isolato fino al 2.500 a.C.. (periodo in cui probabilmente cominciò a fondersi con l’aristocrazia locale). Ed è ad esso che probabilmente dobbiamo il substrato religioso e spirituale che caratterizzò la nascita improvvisa delle più grandi civiltà del Mondo antico. Il loro status sociale di eruditi “divini” può quindi essere ragionevolmente attribuito all’eredità culturale della perduta civiltà antidiluviana di cui ci informano le nostre antiche tradizioni. Sappiamo inoltre che i membri di questa dimenticata elite etnica continuarono a sopravvivere tra i faraoni egizi e i regnanti Mitanni. I loro discendenti infatti, devono avere regnato all’ombra della storia ufficiale almeno fino al 1351 a.C., periodo in cui il faraone “eretico” Akhenaton tentò di restaurare l’antico culto solare delle origini.
Di Marco Pizzuti