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(Image by Adescalco Marangoni)

Chissà come si dice “ridicolo” in cinese. Si potrebbe chiederlo, ad esempio, al ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Timothy Geithner. Proprio mister Geithner – 48enne, biondino e con lo sguardo da bambi; uno dei pochi membri della squadra del neo-presidente Obama, che ha studiato il cineseinfatti, ha appena concluso un lungo week-end di lavoro in Cina. Obiettivo: rassicurare Pechino sulla capacità degli Usa di ripagare il proprio debito pubblico. Risultato: una platea di studenti universitari gli ha riso in faccia. E per giunta, o per lo meno così riferisce il quotidiano britannico Telegraph, “sonoramente”.

Segno dei tempi. E di una crisi economica che sta colpendo in maniera durissima Washington e dintorni e ridisegnando (come avevamo osservato anche noi, qui) i rapporti di forza a livello globale. Un segno, anzi un segnale che, però, non si può apprezzare fino in fondo, se non si sanno almeno tre cosette. Primo: non da oggi, ma da tempo: è la Cina ad essere il primo esportatore negli Stati Uniti. Secondo: la Cina è anche il Paese che ha in mano la maggior parte del debito (pubblico) a stelle e strisce. E terzo: praticamente, si potrebbe dire – probabilmente senza andare lontano dal vero – che i cinesi hanno prestato agli americani il denaro necessario a comprare le loro merci. Un circuito che è stato, per così dire, “bello” finchè è durato. Ma che ora rischia di saltare. Perchè gli Stati Uniti – per garantirsi il loro standard di vita e il loro ruolo di superpotenza – con i debiti hanno un tantino esagerato. E continuano ad esagerare.

Il Paese del neo-presidente Obama – che pure sui media italioti gode ancora di un’ottima immagine – infatti ha un problemino: un debito (pubblico e privato) semplicemente enorme (e pari a tre volte e mezzo il suo prodotto interno lordo). Ma tanto gli ultimi scampoli del fu governo Bush che i primi mesi del nuovo governo Obama si sono mossi all’insegna di un’unica parola. Spendere. La crisi morde? No problem, si devono essere detti a Washington. 700 miliardi di dollari – e si badi bene che si tratta di miliardi, non milioni – sono stati messi sul piatto per salvare le banche in difficoltà (con il cosiddetto Troubled asset relief program). Più altri 700 e passa miliardi per un maxi piano di stimolo dell’economia. Più un altro trilione – da non confondere con il fantastilione di “ziopaperoniana” memoria; si tratta di mille miliardi di dollari – per ridare “magicamente” valore ai cosiddetti titoli tossici (che poi altro non sono che carta straccia presente nelle “pance” di molte banche; mentre la medicina, questa volta, si chiama Public-private investment program).

E così: Pechino ha iniziato ad avere qualche piccolissimo dubbio. E e a mandare segnali. A febbraio la Cina ha cominciato – senza tanto perdersi in chiacchiere – a comprare meno titoli di stato Usa. E a marzo – tanto perchè non ci fossero equivoci – il premier cinese Wen Jiabao ha fatto capire, urbi et orbi, che Beijing non era Napoli. Ma che anche lì “nisciuno è fiesso”.

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“Abbiamo prestato grandi quantità di denaro agli Stati Uniti. Ovviamente siamo preoccupati della sicurezza dei nostri investimenti. Per essere onesti, sono davvero un po’ preoccupato e vorrei fare… appello agli Stati Uniti perchè onorino la loro parola e rimangano una nazione credibile e assicurino la sicurezza degli investimenti cinesi”, ha detto Jiabao in una dichiarazione ufficiale ripresa, tra gli altri, anche dal solito Telegraph.

Perchè tanto nervosismo? Probabilmente nessuno, a Pechino, teme che Washington non “onori”, nel senso letterale del termine, il proprio debito. Quel che si teme è che gli americani lo facciano a modo loro. Cioè scatenando prima una ondata di (moderata) iperinflazione. Che distruggendo il valore della moneta, ridurrebbe anche il valore degli interessi e dei titoli di stato da rimborsare. Ipotesi fantasiose? No. Tanto che anche il Financial Times, un paio di giorni fa, ricostruiva così – debito, timori di inflazione, eccetera – il senso del viaggio del ministro del Tesoro Usa. Un viaggio (pre)annunciato da tempo. Ma con un finale a sorpresa. Fatto di tante strette di mano ufficiali. E del piccolo inciampo di cui sopra. Quando Geithner, all’università di Pechino, ha detto che gli investimenti cinesi in Usa erano “molto al sicuro” (letteralmente “very safe”), gli studenti si sono scompisciati. Una risata – per così dire – rivelatrice di quella che è la pubblica opinione cinese sulla serietà made in Usa.

Epperò: se Pechino è preoccupata (e forse ride, per non piangere); anche a Washington pare che ci sia ben poco da stare allegri. I grandi media a stelle e strisce – o almeno così scrive oggi il celebre blog del Financial Times, FtAlphaville hanno oscurato la notizia della risata. Mentre rimane avvolta nel mistero più fitto la risposta al punto interrogativo più grande di questo 2009: chi – oltre ai cinesi – dovrebbe comprare la raffica di titoli di stato che gli Stati Uniti si apprestano a stampare? Un mistero, appunto, che però dovrà essere, per forza di cose, svelato presto. Poco più di una settimana fa, il giornalista britannico Ambrose Evans-Pritchard si è armato di pallottoliere. E, sempre sulle colonne del Telegraph, ha scritto nero su bianco che – per coprire i costi dei salvataggi delle banche e del piano di stimolo dell’economia – gli Usa entro la fine dell’anno dovranno trovare investitori disposti a dargli ben 2 trilioni di dollari. Di cui – pronti e via – ben 900 miliardi di dollari entro settembre. Come a dire: non proprio noccioline.

Una missione difficile. Ma non impossibile. Ma c’è un ma. Sempre quest’anno – e sempre per far fronte alla crisi – si emetterà debito a iosa. Secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale (riportati domenica scorsa dal “Sole 24 ore”, in un articolo purtroppo non disponibile on line): quattro Paesi da soli – Usa, Gran Bretagna, Giappone e Germania – stamperanno qualcosa come 4mila miliardi di titoli di Stato o obbligazioni garantite. E non è finita lì. Perchè secondo il giornalista del Telegraph, Ambrose Evans-Pritchard, i governi dell’intero orbe terracqueo dovranno racimolare – sempre facendo ricorso al debito – un totale di 6mila miliardi di dollari. Un totale che per qualcuno è – semplicemente – un po’ troppo.

Per capirci. Kyle Bass, analista del fondo di investimenti americano Hayman Advisors, ha detto chiaro e tondo sempre al Telegraph che:

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“There isn’t enough capital in the world to buy the new sovereign issuance required to finance the giant fiscal deficits that countries are so intent on running. There is simply not enough money out there,” he said.

“The bottom line is that there is no global ‘get out of jail free’ card for anyone”, he said.

Ovvero e in italiano:

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“Non c’è abbastanza capitale nel mondo per comprare le nuove emissioni (di debito, ndA) richiesti per finanziare i giganteschi deficit fiscali che gli Stati stanno crecando. Semplicemente non ci sono abbastanza soldi”.

“Il punto è che non c’è una via d’uscita globale gratis per tutti”.

Il che tradotto in parole povere significa che: qualche Paese potrebbe non riuscire a piazzare i propri titoli di stato; a coprire i propri debiti. E farà un bel crac.

Ma a proposito di campioni del debito pubblico e di crac. E l’Italia? Beh, ultimamente Cnn e New York Times de’ noantri sono troppi impegnati a parlare di campagna elettorale e di cenerentole di Casoria varie, per occuparsi di queste quisquillie. Per fortuna, però Eugenio Scalfari – padre, padrone di Repubblica – giusto domenica scorsa ha vergato alcune righe interessanti, anche se piazzate ben lontano dalla prima pagina e dai titoloni (e quindi dagli occhi del grande pubblico):

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Nel secondo semestre di quest’ anno verranno a scadenza una massa notevole di titoli pubblici italiani. All’ incirca si tratta di 200 miliardi di euro, proprio in sincronia con le scadenze ben superiori di titoli Usa, Gran Bretagna, Germania. Tremonti non ama parlare di questo problema che sta sospeso nel cielo dell’ Occidente come una fitta coltre di nerissime nubi. Dice che il peggio è passato e usciremo meglio degli altri dalla crisi. In realtà il peggio deve ancora venire e nasconderlo non giova a nessuno.

Il problema insomma potrebbe toccare anche noi. Speriamo solo che anche il nostro ministro del Tesoro, Giulio Tremonti – quando si deciderà a scongelare l’argomento e ad aprire bocca al riguardo – non faccia la fine Geithner. Finendo seppellito di risate.

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