Ebbe a dire Jean Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea: “E’ l’Irlanda il modello che la Grecia dovrebbe seguire” per gestire la crisi, perché “l’Irlanda aveva problemi molto seri e li ha affrontati con estrema determinazione e professionalità”. Parole (sante) pronunciate – con la sicumera che da sempre contraddistingue monsieur Trichet – nel non lontano marzo del 2010. Da allora sono passati solo sette mesi. E mai parallelo si è rivelato più azzeccato. Se non fosse per un piccolo dettaglio: più che altro è stata l’Irlanda a seguire (fin nel baratro) il copione greco, e non il contrario. Tanto è vero che pure Dublino – esattamente come Atene – è ormai arrivata al capolinea, ovvero a un passo dal fallimento. Ed è stata costretta a chiedere aiuto al Fondo monetario internazionale e all’Unione europea, che hanno dovuto – come da copione (greco), appunto – correre a metterci una pezza.

E infatti.

I ministri delle Finanze dell’Unione europea – compreso il nostrano Giulio Tremonti – ieri si sono dovuti riunire a Bruxelles. Motivo del faccia a faccia: approvare – di gran carriera – un maxi-piano di aiuti per l’Irlanda da ben 85 miliardi di euro (in parte a carico dei Paesi “sani” della Ue, e in parte a carico del Fondo monetario internazionale, appunto). Ottantacinque miliardi di euro che saranno pure meno dei 110 miliardi che sempre Ue e Fmi si sono impegnati, nel giugno scorso, a sganciare per salvare Atene. Ma che comunque non sono un piatto di lenticchie.

Insomma. Nonostante l’entusiasmo e i complimenti del numero uno della Banca centrale europea, anche a Dublino qualcosa non sembra essere andato per il verso giusto. Ma cosa, esattamente?

Questa è tutt’altro che una questione di lana caprina. E ha molto a che fare più con il futuro che con il passato. Ma prima di arrivare al punto, occorre fare non uno, ma parecchi passi indietro, fino a tornare agli anni “verdi” dell’Irlanda, ovvero a quelli che hanno preceduto l’esplosione della crisi.

Fino al 2007, Dublino ha vissuto un boom immobiliare e dei consumi, che è durato una decina d’anni. Tutti, insomma, compravano case, auto e quant’altro. E lo facevano a debito. Poi questa “bolla” – perché di bolla immobiliare e del credito, si trattava – è esplosa. E sono esplose anche le banche (la Anglo Irish Bank, in particolare, è stata completamente nazionalizzata, perché il suo bilancio aveva buchi grandi come crateri). Di qui un rovinoso capitombolo del Prodotto interno lordo (sceso nel 2008, secondo Eurostat, del 3,5%). E un’impennata della disoccupazione che – sempre dati Eurostat alla mano – è letteralmente raddoppiata nel giro di soli dodici mesi, passando dal 7,2% del settembre 2008 al 12,9% del settembre 2009.

E’ a questo punto – ovvero nel 2009 – che Dublino, come direbbe monsieur Trichet, cominincia ad affrontare i suoi problemi “con estrema determinazione e professionalità”.

Quali sono questi problemi? Semplice: se l’economia gira più lentamente, imprese e cittadini pagano meno tasse (perché guadagnano e consumano di meno). Ed è esattamente quel che è successo in Irlanda dove – visto che il danaro incassato dalle tasse calava – il debito pubblico ha preso a crescere alla velocità del suono. Per capirci: secondo i calcoli del Financial Times (basati sui dati ufficiali dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), il debito pubblico irlandese è schizzato dal 25% del Pil (nel 2007) al 65% del Pil (nel 2008). E che ha fatto, a questo punto, Dublino? Per far quadrare i conti, ha preso a tagliare selvaggiamente la spesa pubblica. Il governo guidato dal primo ministro irlandese, Brian Cowen prima ha deciso di dare una bella sforbiciata da 8 miliardi di euro. Poi – a dicembre del 2009 – ha approvato un secondo pacchetto di tagli da 4 miliardi di euro.

In totale: 12 miliardi di euro circa, una cifra che in Irlanda vale quasi il 7% del Pil (per la cronaca: secondo il World Factbook, il Pil irlandese, nel 2009, è stato di 172 miliardi di euro). In parole povere: una autentica mazzata a welfare; stipendi pubblici (calati anche del 20%); istruzione; e quant’altro (come potete leggere, nel dettaglio, in questo vecchio articolo del Financial Times e come  per altro, avevamo raccontato pure noi).

Mazzata, per l’appunto, che ha attirato il plauso del numero uno della Banca centrale europea (proprio ai tagli si riferiva Trichet, quando indicava ad esempio l’Irlanda a quei discoli dei greci). Una mazzata che, però, non ha decisamente risollevato le sorti della disastrata economia di Dublino. Anzi. Il prodotto interno lordo dell’Irlanda, nel 2009, è sceso addirittura, secondo l’Eurostat, del 7,5% e quest’anno si prevede un ulteriore calo dello 0,9%. Il tasso di disoccupazione, secondo Eurostat, è arrivato, a settembre 2010, al 14,1%. Ma per chi si affaccia al mondo del lavoro – ovvero i giovani – la situazione è ancora peggiore: i dati Eurostat, infatti, dicono che quasi un giovane irlandese (sotto i 25 anni) su 3, è disoccupato.

Un quadro desolante. Epperò: il governo di Dublino ha deciso non di lasciare la strada dei tagli, ma di raddoppiare. Pochi giorni fa, il primo ministro Brian Cowen ha alzato il sipario su una nuova cura da cavallo per i conti pubblici del suo Paese che durerà quattro anni (ossia fino al 2014). Cura da cavallo che prevede altri 10 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica; un aumento delle tasse da 5 miliardi di euro; e per giunta una riduzione del salario minimo (per chi lavora nel settore privato).

Ma meno spesa pubblica non significa anche meno soldi in circolazione per far girare (nel modo giusto) l’economia?

Qui – a ben vedere – sta il nodo della questione. Dublino viene da due anni di tagli e ne avrà davanti altri quattro. Ora: a mio modestissimo parere (io non sono un economista, sono solo un giornalista e neppure granché blasonato) è lecito chiedere e chiedersi: ma se l’Irlanda taglia ancora la spesa pubblica (e taglia pure gli stipendi pubblici e privati), questo non rischia di deprimere ancora di più l’economia, e di conseguenza di colpire di riflesso pure la salute delle già acciaccate banche irlandesi, che avranno bisogno ancora di aiuti? In altre parole: la soluzione irlandese – tagli, tagli e ancora tagli – non assomiglia tanto a un circolo vizioso?

Anzi: il rischio – sempre secondo il modestissimo parere di chi scrive – è che si inneschino ben due circoli viziosi. Primo circolo vizioso: se i cittadini guadagnano meno, spendono pure meno; ma se non spendono, i prezzi scendono; se i prezzi scendono, i profitti calano; se i profitti calano, le aziende licenziano; e licenziati spenderanno ancora meno. E così via. E questo fenomeno si chiama deflazione. Secondo circolo e sempre vizioso: se idem come sopra, i consumi calano, calano pure le tasse incassate sulla merce venduta (Iva e dintorni); ma se calano i soldi di imposte e balzelli vari, si aprono dei buchi neri nei bilanci (già scassati) dello Stato; Stato che avrà ancora meno soldi per aiutare i cittadini (licenziati e non) e le imprese; imprese che licenzieranno ancora di più, pagando anche meno tasse sui profitti e sul lavoro. E anche in questo caso: e così via. Solo che questa si chiama tragedia. Perchè il fallimento di una società – per quanto grossa – è un conto. La bancarotta di un intero Paese è un altro.

Chi scrive ha girato la domanda a Mario Seminerio (il dominus del celebre blog Phastidio), uno degli economisti italiani che più ha seguito gli eventi che hanno costellato questi ultimi tre anni di crisi. E Seminerio ci ha risposto assai schiettamente che, a parer suo, questo ha proprio tutta l’aria di “un circolo vizioso deflattivo, di quelli che mandano il debito-Pil in traiettoria parabolica. Altri pensano invece che questo serva per produrre la famosa svalutazione interna utile a rilanciare l’export. Il mio dubbio è che prima di questo esito si arrivi al default per manifesta insostenibilità sociale della procedura di “risanamento”“.

E dubbi sulla tenuta dell’Irlanda ne ha anche un celebre economista americano, Simon Johnson, professore del celebre Mit (Massachusettes institut of technology) ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale. Johnson – nell’ultimo post pubblicato sul suo blog – ha scritto nero su bianco che secondo i suoi calcoli, il debito pubblico irlandese potrebbe alla fine “stabilizzarsi” tra il 100 e il 150 per cento del Pil. E ha aggiunto che il Paese della fu swinging Dublino degli U2 dovrà soffrire – e pure parecchio – per riuscire a pagarne gli interessi. Sempre ammesso che ci riesca.

E allora? E allora e come su questo blog si è ripetuto più e più volte: siamo davvero sicuri che questa politica dei tagli – applicata anche ad Atene e vera e propria via europea alla soluzione della crisi economica che ammorba l’Occidente – sia la strada giusta? E non sarebbe il caso – tra la cronaca di un festino e quello di un party selvaggio – di sollevare la questione anche nel nostro ex Belpaese? Non per altro. E’ che ne va della stabilità economica dell’intero Vecchio continente. E, per quel che vale, pure della nostra sgangherata Italia. Perché – dopo Spagna e Portogallo – è proprio l’Italia ad essere la candidata ideale per il prossimo giro di tagli, prestiti e affini. E sarà bene non dimenticarlo.

 

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