DI

GIANLUCA FREDA
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le rivolte in Nord africa e Medio Oriente divampate nel corso di questo mese si sono guadagnate l’attenzione del mondo e il consueto florilegio di commenti e interpretazioni di diverso e spesso opposto tenore. Molti vedono nelle rivolte un’ennesima applicazione dello strumento, ormai rodato, delle “rivoluzioni colorate” targate CIA e National Endowment for Democracy, attraverso le quali gli Stati Uniti tentano spesso di ricondurre nella propria orbita d’influenza governi non fedeli al “Washington Consensus” o titubanti sulla conservazione della fedeltà. Altri, come l’autorevole Maurizio Blondet, sembrano vedere nella rivolta dei popoli arabi una “ribellione spontanea della gente”, un tentativo di affrancamento delle tradizionali colonie arabe di USA e Israele dalla tirannia imposta dai fantocci governativi insediati al potere da queste nazioni internazionalmente o localmente dominanti. Dico come la penso, ben sapendo che la situazione è complessa ed in via di rapida evoluzione e dunque presta il fianco a possibili errori d’interpretazione che si dovranno eventualmente correggere sulla base dei nuovi sviluppi.

Da quel che ho visto fin qui, non mi sembra affatto che questa nuova ondata di “proteste” esuli dallo schema delle “rivoluzioni colorate” americane che abbiamo visto attuate (o tentate) in innumerevoli zone del globo, dalla Cina all’Europa dell’est, dalla Thailandia all’Iran. Naturalmente spero che abbia ragione Blondet e che queste rivoluzioni programmate e attuate con gran dispendio di strumenti d’intelligence dai servizi segreti americani finiscano – vuoi per improvvisa maturazione politica dei cittadini in rivolta, vuoi per l’intervento di una delle potenze economico/politiche attualmente in ascesa – per sfuggire di mano ai loro ideatori e per produrre quella “eterogenesi dei fini” che rappresenterebbe, per i piani americani e israeliani sul Medio Oriente, uno smacco colossale e forse definitivo. E’ già accaduto molte volte che queste operazioni fallissero o si trasformassero in un boomerang per i loro artefici. Basti pensare a quanto avvenne in Cina nell’89 o più recentemente nel tentato e miserevolmente abortito colpo di stato elettorale in Iran del 2009. Ma nulla di ciò che ho visto fino a questo momento mi lascia sperare che le cose vadano in questa direzione.
Prima di tutto, vorrei far notare che una regia dell’intelligence americana dietro queste sollevazioni appare indiscutibile. Per capirlo, basterebbe ascoltare le dichiarazioni di Obama e della Clinton degli ultimi giorni. Tali dichiarazioni sono tutte a favore del “popolo in armi” e seccamente contrarie alla permanenza al potere degli antichi e ormai decrepiti burattini atlantici. Non solo: la Clinton non si è limitata ad esprimere la propria simpatia verso il “desiderio di democrazia” di queste masse ribelli, ma ha utilizzato quanto avvenuto in Tunisia come strumento esplicito di minaccia e pressione politica sugli altri governi arabi. “Coloro che si aggrappano allo status quo, possono riuscire ad evitare il pieno impatto con i problemi dei loro paesi per qualche tempo, ma non in eterno” , aveva detto la Clinton in un intervento a Doha, in Qatar, il 13 gennaio di quest’anno, in piena rivolta tunisina. Se non è un “obbedite o guai a voi” ci somiglia molto. Perfino dopo l’intervento televisivo di Mubarak, che ha promesso di abbandonare il potere entro settembre prossimo, la reazione degli Stati Uniti è stata improntata all’impazienza e alla minaccia, con ripetuti inviti al presidente egiziano affinché abbandoni ad altri la poltrona senza porre ulteriori indugi.
Oltre a ciò, le rivolte presentano alcuni segnali inconfondibili di progettazione CIA: l’utilizzo di social network come Facebook e Twitter nell’organizzazione delle proteste, già visto in Iran e puntualmente ribadito in questa nuova infornata di sollevazioni popolari; i cartelli di protesta dei rivoltosi arabi con slogan scritti rigorosamente in inglese, affinché le plebi occidentali possano simpatizzare per via mediatica con i valorosi ribelli del Maghreb o dell’Egitto; l’utilizzo mediatico preliminare di “eroi” che si immolano per la causa, come la Neda iraniana o come il tunisino Mohamed Bouazizi (non voglio riaprire un nuovo “caso Neda”, ma anche sulla vita e sulla morte di Bouazizi esiste perlomeno un discreto numero di perplessità); il fatto che la maggior parte dei manifestanti non appartenga alla classe più povera, ma al ceto medio, l’unico, del resto, che può permettersi Facebook e Twitter; l’utilizzo, nel caso della ribellione tunisina, di una denominazione (“Rivoluzione dei Gelsomini”) che non solo richiama alla memoria altre operazioni floreali della CIA (la “Rivoluzione delle Rose” in Georgia o quella “dei Tulipani” in Kirghizistan), ma addirittura recupera dalla soffitta un termine identico a quello utilizzato nelle comunicazioni CIA del 1987, durante l’operazione che estromise Bourghiba dal potere tunisino per sostituirlo con l’allora più fedele Ben Ali; il fatto che siano stati utilizzati in Tunisia cecchini di origine straniera (in questo caso tedeschi e svedesi) per sparare sulla folla e farla inferocire; e varie altre cose.
Del resto, se la speranza dei manifestanti borghesi di Egitto e Tunisia era quella di migliorare le proprie condizioni economiche e quelle del proprio paese, forse la scelta migliore sarebbe stata quella di restarsene a casa. Moody’s, ad esempio, ha già ritoccato al negativo il rating del debito sovrano tunisino, a causa dell’instabilità politica del paese provocata dal rovesciamento del governo. Il tutto senza che il “cambio di regime” prodotto dalla sollevazione migliorasse minimamente le prospettive economiche o occupazionali del paese; che saranno anzi soggette ad indebolimento ulteriore non appena il balletto delle “elezioni democratiche” verrà messo in scena, con tutto il suo seguito di instabilità politica, incertezza degli investitori e frazionamento dell’azione politica di governo.
Molti sono perplessi sui motivi che avrebbero portato gli Stati Uniti ad estromettere dal potere uomini che loro stessi avevano insediato alla guida degli stati arabi e che erano considerati alleati di ferro. Per quale motivo gli Stati Uniti avrebbero dovuto organizzare e fomentare queste rivolte contro governanti ritenuti tra i più fedeli esecutori dell’agenda israelo-americana e abbondantemente foraggiati dall’impero con sostanziosi emolumenti annuali? Tali operazioni, in realtà, non sono affatto nuove, come ben dimostra la fine fatta fare dagli USA all’antico “alleato” Saddam Hussein. I quisling dell’Impero, col passare dei decenni, invecchiano, acquisiscono potere politico assoluto all’interno delle loro nazioni, si ritrovano privi di opposizione, progettano di dar vita a dinastie ereditarie che rendano perpetua la permanenza al potere del proprio entourage familiare, si arricchiscono attraverso commerci e soperchierie di vario genere, e la ricchezza li rende più disinvolti e liberi di tradire gli antichi padroni stipulando nuove alleanze. Ciò rende necessaria una loro periodica sostituzione con nuovi e più obbedienti esecutori.
Prendiamo Ben Ali: costui, nel 2000, si era smarcato da Israele rompendo ogni relazione diplomatica con l’entità sionista; nel 2003 aveva rifiutato ogni cooperazione con la “coalizione dei volonterosi” che aveva invaso e fatto a pezzi l’Iraq; nel 2009 (cosa più grave di tutte) aveva firmato accordi di cooperazione economica e di scambio tecnologico con la Cina; la sua abolizione delle barriere commerciali con l’Unione Europea, vivamente caldeggiata dagli USA, era stata poco più che un’operazione di facciata. Ben Ali, con la sua famiglia che deteneva il quasi totale monopolio degli appalti tunisini, era divenuto un alleato infido e pericoloso, pronto a smarcarsi dai vecchi referenti grazie a disinvolte alleanze con i paesi emergenti. Com’è evidente, andava sostituito al più presto. Possibilmente con una nuova classe di governo, non troppo lontana dalle linee della vecchia, che fosse però sufficientemente divisa, litigiosa e priva di ricchezza personale (dunque debole) da poter essere manipolata con facilità. Magari costringendola al rito delle solite “elezioni democratiche”, che sono lo strumento principe con cui gli americani hanno sempre fatto a brandelli la stabilità politica delle nazioni. Anche noi europei dovremmo saperne qualcosa. Il governo transitorio di Ghannouchi era l’ideale per far transitare il paese verso questo desiderabile (per gli USA) obiettivo, prodromo dell’asservimento definitivo della Tunisia ai diktat atlantici.
Prendiamo Mubarak: in apparenza – e non solo in apparenza – si tratta del più devoto e fedele servitore di Israele e Stati Uniti in un’area geopolitica d’immensa rilevanza strategica. E’ ben noto il fondamentale contributo dato da Mubarak alla segregazione dei palestinesi di Gaza. Col pretesto della sicurezza nazionale contro il terrorismo e il traffico di droga, Mubarak ha ampiamente coadiuvato gli israeliani nella vergognosa politica di ghettizzazione della Palestina, chiudendo le frontiere tra la Striscia e l’Egitto e arrivando perfino a costruire un muro sotterraneo, a oltre venti metri di profondità, per impedire ai palestinesi lo scavo di tunnel attraverso i quali sfuggire alla prigionia imposta dai sionisti. Per questo e altri tradimenti della causa araba, Mubarak è odiato dai popoli del Medio Oriente e dai suoi stessi cittadini. Eppure, in tempi recenti, Mubarak aveva dato pericolosi segni di smarcamento dalla sudditanza israelo-statunitense. Il ministro egiziano per l’irrigazione, Mohamed Nasr Eddin Allam, si era rifiutato, nel giugno scorso, di ottemperare alle richieste di Israele, il quale chiedeva di poter attingere all’acqua del Nilo per il proprio fabbisogno idrico (è noto che l’Egitto vanta un diritto di esclusività sull’utilizzo dell’acqua del Nilo). Le frontiere con Gaza, lungo il valico di Rafah, sono state aperte in più occasioni negli ultimi anni e i rapporti con Israele si sono fatti assai più tesi dopo l’aggressione alla Mavi Marmara e la decisione della Turchia di chiudere i propri spazi aerei ai voli militari israeliani, minacciando la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche con lo stato ebraico. Il pericolo di un allineamento dell’Egitto alle posizioni di Turchia, Siria e Iran si era fatto negli ultimi tempi assai più temibile, viste le posizioni ambigue e non sempre ottemperanti assunte da Mubarak. L’incidente più grave è stato forse quello dello scorso 20 dicembre, quando due israeliani e diversi cittadini egiziani sono stati arrestati dalle autorità cairote con l’accusa di aver organizzato una rete di spionaggio al fine di attentare agli interessi del paese e destabilizzare la penisola del Sinai, punto di congiunzione strategico tra il Nord Africa e il Medio Oriente. La reazione dei servizi segreti israeliani non si è fatta attendere: 11 giorni dopo, ad Alessandria d’Egitto vi è stata la strage di cristiani copti (attribuita alla solita Al Qaeda (che tutti i governi fantoccio della regione sanno ormai essere un’organizzazione fondata e gestita congiuntamente dall’intelligence americana e israelia na), strage che rappresentava il primo, chiaro avvertimento.  a Mubarak. Venti giorni dopo, con l’inizio della rivolta, l’operazione di rimozione del vecchio e non più fedele maggiordomo è entrata nel vivo.
Da quel che si è visto fin qui, Mubarak verrà probabilmente sostituito da Omar Suleiman, capo del Jihāz al-Mukhābarāt al-Āmma, il più potente dei servizi d’intelligence egiziani. Suleiman è persona assai vicina alla CIA e gradita agli ambienti israelo-statunitensi. Ha ricevuto il suo addestramento all’inizio degli anni ’80 presso la scuola militare John F. Kennedy di Fort Bragg, in North Carolina. E’ lui che si è occupato, in questi anni, di trasformare l’Egitto nel “buco nero” in cui scomparivano i prigionieri catturati dalla CIA e deportati nel corso delle “extraordinary renditions”.
Una volta assicurato l’avvento di Suleiman ai vertici delle istituzioni egiziane – e scongiurata la successione alla presidenza del figlio di Mubarak, Gamal – la nobile rivoluzione egiziana è stata ricacciata nel nulla. Fantomatici gruppi di sostenitori del presidente sono comparsi nelle piazze del Cairo nell’arco di una notte, costringendo i manifestanti anti-Mubarak alla ritirata. Cecchini fantasma hanno iniziato a sparare a casaccio sulla folla, rendendo la permanenza nelle strade assai pericolosa. L’esercito ha avuto la sua fetta di torta, con la nomina a primo ministro di Ahmed Mohamed Shafiq, ex ministro dell’aviazione e persona assai gradita ai vertici militari. La stampa internazionale ha già iniziato a smorzare i riflettori sugli “epocali” eventi egiziani, che aveva tenuto in prima pagina durante il periodo necessario a garantire al popolo egiziano il sostegno internazionale che assicurasse il buon esito delle operazioni. Ora il popolo sovrano può tornarsene alle proprie case, in attesa della prossima chiamata alle armi via Twitter. Oppure in attesa delle future e probabili elezioni “democratiche”, nelle quali si fronteggeranno un fantoccio statunitense “di destra” (Suleiman) e un fantoccio statunitense “di sinistra” (El Baradei?), come avviene in tutti i più moderni e rinomati consessi di gente per bene. Arrivederci, caro popolo sovrano in lotta per la democrazia, e grazie di tutto.
La cosa curiosa è che i commentatori internazionali – guarda i casi della vita – non hanno avuto nessuna difficoltà a riconoscere le orde di “sostenitori del presidente” in azione al Cairo per ciò che realmente sono: movimenti organizzati e gestiti da poliziotti in borghese allo scopo di porre fine al teatrino della rivolta andato in onda in questi ultimi giorni. Quando però si tratta di avversatori del presidente, le capacità di discernimento dei media globali improvvisamente si appannano e tutto diventa “spontaneo”, “popolare”, “genuinamente rivoluzionario”. Neanche l’ombra di un sospetto che anche le rivolte antigovernative, esattamente come quelle filogovernative, possano essere fabbricate a tavolino. Così come si ignora volutamente che le proteste di queste giorni hanno portato in piazza una percentuale risibilmente minoritaria della popolazione egiziana (poche migliaia di persone, al massimo, nonostante le sparate dei media, che contano milioni al posto di unità), mentre la quasi totalità degli 80 milioni di persone che abitano ìl paese si è tenuta ben lontana dagli scontri e dal putiferio nelle principali città.
Anche se provo una certa ripugnanza nel dirlo, visto lo squallore morale e politico del personaggio, penso che la cosa migliore che in questo momento potrebbe capitare al popolo egiziano sarebbe un imprevisto e repentino contropiede di Mubarak, con il quale il decrepito presidente riuscisse a stroncare le rivolte, riprendersi la pienezza del potere, estromettere (e magari far giustiziare) i “collaboratori” imposti dalle potenze dominanti e recidere una volta per tutte i legami politici con queste ultime, rafforzando i contatti e gli scambi con i paesi politicamente vicini (almeno Siria e Turchia, essendo difficile pensare ad un avvicinamento all’Iran) e con le nuove potenze emergenti (Cina e Russia). Come insegna il proverbio, tutto ciò che non ammazza, ingrassa. Tutti i paesi che siano riusciti a reprimere le “rivoluzioni colorate” organizzate dalle ONG e dai servizi segreti di paesi ostili, hanno poi goduto di un avvenire economicamente florido, politicamente stabile e strategicamente autonomo.
La Cina, dopo la sanguinosa repressione dell’89 a Tian-an-Men, iniziò l’ascesa che l’ha portata a diventare la seconda potenza economica mondiale che è oggi (ma presto sarà la prima).
La Russia, ridotta in condizioni miserande dopo la rivoluzione “anticomunista” di Eltsin dell’estate 1991, è riuscita a riconquistare un ruolo internazionale di primo piano grazie all’ascesa di Vladimir Putin, che ha ripreso le redini del paese, facendo piazza pulita degli oligarchi filo-occidentali che stavano per fare a pezzi le risorse industriali ed energetiche del paese con la gioiosa collaborazione delle “democrazie” dominanti.
br> L’Iran, dopo il fallito colpo di stato elettorale del 2009 ad opera del miserabile Mousawi, si è rafforzato sul piano politico, economico, militare, diplomatico e delle risorse energetiche, riuscendo a mandare in porto il programma nucleare tanto temuto da Israele e stringendo più stretti rapporti di cooperazione politica e commerciale con i paesi della SCO.
Qualcosa di simile si potrebbe dire per il tentato colpo di stato del 2002 contro Chavez, in Venezuela, in occasione del quale i media internazionali si fecero in quattro per presentare il nuovo golpista filoamericano, Pedro Carmona Estanga, come legittimo titolare del governo, tacendo sulle sue repressioni sanguinose e sulla ribellione popolare che riportò Chavez al potere nel giro di pochi giorni. Anche in questo caso, il fallimento del golpe portò ad un enorme miglioramento delle condizioni del paese.
Se Mubarak sopravvivesse, traendo le debite conclusioni da ciò che è accaduto ed elaborando per il futuro i necessari programmi di sganciamento dall’orbita israelo-statunitense, forse i manifestanti che in questi giorni hanno pianto e strillato in piazza la propria rabbia per il declino del paese – sotto l’attenta regia dei media e degli organizzatori della kermesse – potrebbero davvero ottenere il “salto verso lo sviluppo” che desiderano, sebbene nel più impensabile e insospettato dei modi.
Ma è assai improbabile che ciò avvenga. La “rivoluzione color merda” egiziana sembra aver funzionato come un orologio e proprio oggi Suleiman, novello dirigente dell’antica colonia, si è presentato in TV per avvertire la comunità internazionale – e in second’ordine il popolo egiziano – che è lui il nuovo tenutario della baracca, mentre Mubarak resterà al suo posto solo per un periodo limitato e con poteri puramente formali. Ha già provveduto a chiedere la formazione di un “governo tecnico”, entità immancabile quando, zittite le fanfare della “rivoluzione”,  si passa a svendere ai padroni ciò che rimane dell’impalcatura industriale ed economica di un paese. Noi italiani dovremmo saperne qualcosa, dopo “Mani Pulite” e lo scempio compiuto dai “governi tecnici” che ne seguirono. Ha anche provveduto a riunire un “comitato di saggi” composto da operatori dell’economia e dell’imprenditoria nazionale, cioè uno stormo di avvoltoi, probabili predatori della carcassa dell’economia nazionale nel nuovo Egitto di rinnovata fedeltà vassallatica. Il tempo rimasto per salvare l’Egitto dalla sorte ignominiosa di trasformarsi in una nuova, impotente “democrazia” non è molto e i giochi sembrano ormai pressoché conclusi. Certo, l’ultima parola sulla rivolta egiziana non è ancora stata scritta. Ma mi sembra improbabile che a scriverla possa essere il popolo egiziano, tanto pronto a strillare (con tutte le ragioni del mondo, s’intende) contro il dispotismo dei suoi governanti, quanto incapace di elaborare una strategia di lotta che gli impedisca di rendersi manipolabile e di cadere nelle grinfie di personaggi perfino più loschi di quelli che si agita per destituire. In questo ricorda molti altri popoli, alcuni di mia lunga e desolata conoscenza.

Fonte: http://blogghete.altervista.org
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