DI

GRAZIANO GRAZIANI
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Si chiama Tem ed è scambiata a un euro. Tra i mercati «alternativi» e la fabbrica recuperata Vio.Me, il Paese riscopre l’autogestione contro la crisi.
La Vio.Me si trova in una vasta area industriale a sud di Salonicco, a cui si accede dal raccordo autostradale. Gli stabilimenti più visibili sono quelli delle grandi catene commerciali, come Ikea e Leroy Marlin, ma dietro le loro insegne scintillanti si estende un vasto numero di capannoni industriali. Christos, uno dei lavoratori Vio.Me, ci raggiunge lungo la strada per scortarci. «Non è semplice trovare la fabbrica», spiega in inglese. Lui è uno dei pochi operai del collettivo di fabbrica che conosce una lingua straniera, quasi tutti gli altri parlano solo greco. Anche se lo stabilimento è un po’ nascosto, il nome Vio.Me nelle ultime settimane ha assunto una grande visibilità e ha varcato i confini nazionali.
A giugno sono venuti a fare visita al collettivo alcuni tra gli esponenti più noti del movimento anti-globalizzazione, come Naomi Klein e John Holloway. Perché questa è la prima fabbrica autogestita in Grecia dall’inizio della crisi e segue apertamente il modello delle fabbriche argentine durante la crisi di dieci anni fa. «Speriamo che quello che stiamo facendo qui possa fornire idee e spunti ad altri lavoratori che sono nella nostra stressa condizione – mi dice un altro operaio, Georgiou – se tutti ci muoviamo per fare qualcosa allora c’è la possibilità che qualcosa cambi».
Quello che più spaventa della crisi è il rischio rassegnazione. I greci ormai sanno che da questa situazione non si uscirà tanto rapidamente e questo, insieme alla sfiducia nella classe politica e nel governo, che sta svendendo il Paese ai privati un pezzo alla volta, getta molte persone nell’apatia. I licenziamenti sono continui: nei soli tre giorni della nostra visita alla Vio.Me, due grandi imprese hanno licenziato rispettivamente 500 e 300 persone, di colpo e tutte insieme. «Non cambierà niente» è il ritornello che si sente recitare più spesso. L’autorganizzazione resta, dunque, una delle poche possibilità per cambiare, anche di poco, la propria condizione.
Il caso della Vio.Me è esemplare. La fabbrica ha chiuso due anni fa, nel 2011, picco di maggiore visibilità per la crisi greca (anche se oggi la percentuale di disoccupati nel Paese è superiore). La proprietà si è come volatilizzata, semplicemente, lasciando fallire l’impresa. Il giudice ha deciso di assegnare momentaneamente la fabbrica agli operai, che già da molti mesi non percepivano più lo stipendio, perché non c’era nulla su cui rifarsi per ottenere denaro e pagare così lavoratori e fornitori. «Eppure questa era una fabbrica che guadagnava molto – dice ancora Christos – credo almeno un milione e mezzo di euro l’anno e parlo soltanto degli utili. Ma la proprietaria è svanita nel nulla. Deve aver pensato che le cose, con la crisi, sarebbero peggiorate rapidamente e quindi ha rastrellato tutto il denaro possibile e se n’è andata».
Anche i manager e i dirigenti sono scomparsi. Mentre alcuni operai hanno preferito cercare altri lavori. Delle 70 persone impiegate alla Vio.Me oggi nel collettivo dei lavoratori ne restano esattamente la metà. «Lavoriamo in modo più rilassato», scherza Christos, ma è una battuta fino a un certo punto. Quando la fabbrica era aperta si lavorava a ciclo continuo: tre turni da otto ore senza pausa, giorno e notte; i capiturno che controllavano i lavoratori permettevano solo una pausa sigaretta e una rapida sosta in bagno. La produttività non doveva mai calare. «Lavorate, lavorate! ci dicevano di continuo. Ma quando chiedevamo di migliorare le condizioni di lavoro – prosegue Christos – non c’era verso. La vedi la fabbrica com’è adesso, senza vetri alle finestre? Era così anche allora. Niente riscaldamento, né aria condizionata. D’inverno si moriva di freddo e d’estate, quando bruciavamo i polimeri per fare i nostri prodotti, la temperatura saliva fino a 45 gradi». Mentre noi parliamo, alcuni operai sono fuori dalla fabbrica, sotto un portico, a bere caffè freddo. Hanno lo sguardo rilassato, scherzano. Il clima che si respira è amichevole e tranquillo, molto diverso da quello che Christos ricorda: e questo nonostante gli operai oggi guadagnino molto poco. «Tra i 250 e i 300 euro al mese, che è davvero pochissimo. Per questo c’è chi fa anche altri lavori, quando li trova. Alcuni di noi, invece, hanno il sostegno delle mogli che magari hanno un altro stipendio. Speriamo di riuscire a migliorare i guadagni in breve. Il prossimo mese dovremmo arrivare a 400 euro a testa».
Prima della chiusura l’azienda produceva materiali per l’edilizia, in particolare piastrelle, mattonelle, collanti per fissarle e stucchi colorati per le rifiniture. In magazzino c’è ancora molto materiale che giace invenduto: il giudice non ha dato agli operai il permesso di venderlo. Né ha permesso che i macchinari possano essere rimessi in funzione. Ogni settimana il collettivo chiede alle autorità l’autorizzazione per riprendere la vecchia produzione, ma per ora nessuno gli ha dato una risposta. Nel frattempo gli operai si sono organizzati diversamente e hanno cominciato a produrre saponi e detergenti, che possono essere lavorati con attrezzature più piccole. Detergenti per i pavimenti, per i vetri, sapone per i vestiti e, ultimamente, anche per le mani, tutti prodotti realizzati senza additivi chimici, con sistemi biologici. «Saltiamo anche la grande distribuzione – mi spiega Christos – i prodotti vengono venduti attraverso una rete di solidarietà che attraversa tutta la Grecia: mercati autogestiti, associazioni di quartiere, associazioni politiche o di solidarietà che organizzano la distribuzione dei prodotti senza intermediari. Il risultato è che i nostri saponi sono buoni e molto economici». Il grande interesse che la loro azienda sta suscitando all’estero ha suscitato negli operai la voglia di tentare una distribuzione internazionale dei prodotti. Al momento, però, l’autorizzazione non c’è ancora: lo scoglio, anche in questo caso, resta la burocrazia.
Tasos, un operaio a cui chiedo se pensa che l’esempio dell’autogestione possa influenzare altre fabbriche in crisi, si scusa perché dice di non saper fare discorsi politici: «Prima che venisse fuori l’idea di autogestire la fabbrica, molti di noi non si occupavano di politica», mi spiega. E anzi, il fatto stesso che la loro autogestione abbia suscitato tanto clamore a livello nazionale e internazionale li ha colti un po’ di sorpresa. Poi, però, aggiunge che senza la speranza di cambiare le cose non si sarebbero buttati in un’impresa tanto complessa che sta assorbendo tutto il loro tempo e le loro energie.
Una rete di mercati
Come funziona la rete di mercati autogestiti che permette agli operai della Vio.Me di saltare la grande distribuzione? Le iniziative che vedono i cittadini greci organizzarsi in questo senso sono le più varie e si stanno diffondendo a macchia d’olio. Tra gli esperimenti più interessante c’è quello di una rete di mercati che cerca di superare l’utilizzo del denaro nell’acquisto di beni e servizi, senza per questo tornare al baratto. Il primo di questi mercati, in ordine di tempo, è sorto a Volos, l’antica Argo, una città portuale che si trova a metà strada tra Atene e Salonicco, in Tessaglia. Qui Angelica e suo marito Panos hanno dato il via a un esperimento che è stato imitato dalle municipalità vicine: un mercato agricolo che bypassa la grande distribuzione. Tutto è nato con la cosiddetta “rivolta delle patate” del 2012: i produttori avevano grandi quantitativi di patate che rischiavano di marcire nei magazzini perché i distributori offrivano prezzi ridicoli, per poi rivendere quelle stesse patate a cifre esorbitanti sui banchi di verdura dei mercati. Cittadini e agricoltori si sono organizzati e il prezzo è sceso a meno di un terzo, con un buon margine di guadagno per tutti. Oggi a Volos e nei dintorni della penisola del Pilio si tiene un mercato mobile organizzato dagli stessi agricoltori due volte al mese. Via internet le persone possono ordinare ortaggi e altri prodotti agli agricoltori e poi passarli a ritirare il giorno di vendita, quando scendono con il camion in città. Anche chi non ha prenotato ha la possibilità di comprare, ammesso che restino dei prodotti, cosa che non avviene spesso da quel che racconta la gente.
Non solo. Oltre ad aggirare la grande distribuzione qui a Volos si è fatto un grosso passo in più: la nascita di un mercato alternativo dove si compra senza soldi, o meglio, attraverso una valuta immateriale alternativa chiamata Tem, un acronimo che sta per “unità alternativa locale” ed è equiparato a un euro. In questo mercato, che si svolge il mercoledì e il sabato, si compra esclusivamente con tale valuta, accreditata o addebitata su un libretto virtuale. Una delle organizzatrici, anche lei di nome Angelica, me ne spiega il funzionamento: «Ognuno di noi ha un nickname a cui corrisponde un libretto virtuale, che è come un conto corrente. Se vendo qualcosa – io ad esempio vendo libri usati – mi vengo accreditati dei Tem, con i quali posso poi a mia volta comprare qualcosa, non solo beni di consumo, che sono il fulcro del mercato, ma anche servizi che posso acquistare in giorni e posti diversi. Ad esempio, se c’è un parrucchiere che aderisce al Tem posso tagliarmi i capelli e pagarlo con la moneta virtuale. Lo stesso vale per il medico: ce ne sono diversi che si fanno pagare così ed è un bel risparmio».
Giovanni è un italiano che vive a Volos da trent’anni ed è uno dei medici di cui parla Angelica. Anche lui è tra i fondatori della valuta virtuale: «Chiaramente – dice – il nostro sistema non può risolvere tutti i problemi, ma abbiamo calcolato che può incidere sulla spesa mensile anche del 20-25 per cento, che di questi tempi non è poco. Soprattutto per quanto riguarda i servizi, come il medico, il meccanico, l’idraulico, il fisioterapista. Tutte cose che con la crisi diventano secondarie, perché tasse, bollette e generi di prima necessità si mangiano tutto lo stipendio mensile e a volte nemmeno è sufficiente. Il vantaggio sta nel fatto che il Tem non è una vera moneta, ma solo un sistema virtuale che regola i nostri scambi. Di conseguenza non è tassabile. La finanza ha già fatto diversi controlli, ma non ha rilevato irregolarità. D’altronde che cosa possono dire se un mio paziente mi paga con delle uova e io le accetto? Niente. Il Tem è pressappoco così, ma permette di andare oltre il baratto, perché quel valore che produco facendo un servizio o vendendo un oggetto non mi viene compensato subito con qualcos’altro che magari non mi serve: posso capitalizzarlo e spenderlo in un altro momento, con una terza persona, per qualcosa che davvero mi occorre».
Ovviamente non è tutto così idilliaco: anche nell’ambito del sistema Tem, come in qualunque altra economia, c’è chi ha tentato di approfittarsi degli altri. Giovanni mi racconta che c’è stato chi ha portato oggetti di scarto, alimenti deteriorate, insomma cose che non si sarebbero potute vendere, e ha cercato di piazzarle. «Quando individuiamo persone che si comportano in questo modo ci parliamo e se continuano – assicura Giovanni – le isoliamo, estromettendole dal nostro sistema di scambio». Un altro problema si è verificato quando alcune persone non hanno restituito il fido iniziale. Per fare in modo che chi aderiva si sentisse immediatamente parte della comunità di scambio gli veniva accreditato un fido di 300 Tem, che si potevano cominciare a spendere subito. Il fido andava poi restituito attraverso la vendita di beni o servizi: «Ora, per tutelarci, lo abbiamo ridotto a 150 unità». Aggiunge Angelica: «All’inizio nel mercato si trovavano quasi solo prodotti di seconda mano, oppure cose fatte in casa, dalle torte ai maglioni. Ora invece stanno aderendo al Tem diversi negozianti che hanno chiuso la loro attività. Chi chiude, spesso ha molta merce invenduta e non sa che farsene. Sono prodotti nuovi, ancora imballati, che qui possono essere acquistati con il sistema dell’unità altermativa. Non è una soluzione definitiva, ma almeno evitiamo lo spreco e queste persone trovano momentaneamente una nuova piccola entrata».
A Patrasso e Kalamarià
L’idea dei mercati alternativi si è diffusa rapidamente, in Grecia. Di realtà strutturate come quella di Volos se ne contano sei, tra cui un sistema di baratto a Patrasso e un’altra moneta virtuale alternativa a Kalamarià, a sud di Salonicco. Si chiama Kinò, che vuol dire «comune», mi dice uno dei suoi ideatori, Yannis, un signore corpulento dal sorriso gioviale con il quale facciamo un giro per il mercato allestito sul lungomare ogni settimana. Anche in questo caso le persone scambiano sia beni che servizi attraverso un conto corrente virtuale e anche in questo caso un Kinò è equiparato a un euro. «Stiamo parlando con quelli di Volos e con gli altri mercati della Grecia», racconta poi Militsa, la donna che registra gli acquisti della comunità di scambio. «Ci scambiamo pratiche e suggerimenti – prosegue – qualche volta alcuni di noi sono anche riusciti a incontrarci. C’è l’idea di equiparare le nostre “unità alternative”, che sono tutte a loro volta equiparate all’euro. Sarebbe un grande passo in avanti. Vorrebbe dire che con i Kinò di Kalamarià potrei acquistare beni e servizi anche a Volos e nelle altre città della Grecia e viceversa. Ma non è così semplice, perché ogni comunità ha i suoi sistemi e le sue logiche e non sempre tutto coincide». C’è da tener conto poi del fattore fiducia, che anche in un mercato di piccole dimensioni come questo resta un nodo importante. Al momento si tratta di comunità che si autoregolano, ma ci riescono perché tutti si conoscono, possono guardarsi in faccia. Un domani, se il sistema crescesse, si potrebbero creare dei problemi. Così come c’è chi pensa che se le valute virtuali si federassero, diventando una realtà nazionale, il nuovo sistema alternativo non verrebbe lasciato libero dalle autorità governative come accade adesso a livello locale.
C’è anche chi è critico fin d’ora. I partiti della sinistra radicale affermano che non si può andare oltre il sistema capitalistico con i suoi stessi mezzi. Ma anche chi è vicino a Syriza, il primo partito di opposizione i cui militanti organizzano mercati alternativi, sostengono che queste attività non sono del tutto risolutive. «Il vero problema è che hanno bisogno di energie continue, non sono sistemi che possono funzionare in automatico: se le persone smettono di impegnarsi, cessano di esistere», dice Argiris Panagopoulos, un giornalista di Avgi, quotidiano che sostiene Syriza. Anche lui è attivo in alcuni comitati di scambio di Atene: nella capitale, che conta oltre quattro milioni di abitanti ed è divisa in decine di municipalità, ne sono sorti moltissimi. «Quello che è veramente cambiato – aggiunge – è l’atteggiamento nei confronti dello spreco. Prima si buttava molto di più, oggi trovi immigrati, ma anche tanti greci, che rovistano nei cassonetti per recuperare materiali da rivendere, soprattutto ferro. Anche nei mercati si scambiano cose che vengono conservate perché possono essere utili agli altri: farmaci, cibo, vestiti. È sicuramente utile, ma non può essere la soluzione della crisi».
Una cosa interessante, rileva Panagopoulos, è che queste esperienze funzionano soltanto se sono veramente espressione del territorio: «Io stesso – dice – ho partecipato ad alcune iniziative di Syriza di questo tipo, ma che sono morte quasi subito. Il fatto è che oggi, in Grecia, se la gente sente che ci sono di mezzo i partiti non si fida più. In altre situazioni, dove i militanti di Syriza hanno aiutato e sostenuto iniziative nate direttamente nei territorio, le cose sono andate decisamente meglio». Si tratta, secondo Panagopoulos, di un segnale dello scollamento che le persone hanno rispetto alla classe politica. Ma anche del fatto che oggi in Grecia le organizzazioni politiche, se vogliono davvero essere popolari, devono tornare a stare in mezzo alla gente che mai come ora si sente truffata da chi l’ha rappresentata in patria e all’estero.

Graziano Graziani
Fonte: www.ilreportage.eu
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pubblicato su ilmanifesto.it