Un po’ fa sorridere. Un po’ fa tremare. Ma tant’è. Scrive il New York Times che da ieri pomeriggio, lo Stato della California – che da sola, se non facesse parte degli Usa, sarebbe la ottava economia al mondo – ha cominciato a stampare pacchi di I.O.U. Sigla che sta per “I owe you” (tradotto: “Ti sono debitore”). E che, in un italiano spicciolo, potremmo chiamare “pagherò“. Insomma: cambiali. Cambiali che serviranno a pagare contribuenti, fornitori e amministrazioni locali.

Riassunto – per chi se le fosse perse – delle puntate precedenti:

1) A dicembre 2008, causa la peggior crisi dal 1929 ad oggi, la Californiaassieme ad altri 42 Stati americani su 52 si era ritrovata con buchi di bilancio grossi come crateri.

2) La soluzione, per la California, comunque pareva a portata di mano. Sotto forma di un bell’aumento di tasse (per la precisione e secondo il “Corriere della Sera”: un’ addizionale dell’ 1% sull’ imposta di consumo; un aumento della tassa di circolazione; e un incremento dello 0,25% dell’ Irpef californiana). Aumento che però – come ha scritto sempre il “Corriere”è stato bocciato brutalmente dagli elettori. Che chiamati a dare il loro parere con un referendum ad hoc, hanno detto un seccon “no” all’idea di mettere le mani al loro portafoglio.

3) Da allora sono partite polemiche (politiche) infinite su come far quadrare i conti. Che non hanno portato da nessuna parte. Il governatore repubblicano – ed ex culturista ed ex attore – Arnold Scwartzeneger aveva proposto tagli draconiani a scuola e Sanità. I parlamentari democratici avevano altre idee.

4) E – discutendo discutendo – si è fatto tardi. Mercoledì scorso, negli Stati Uniti, si è chiuso l’anno fiscale. E la California si è ritrovata senza un accordo politico su come far quadrare i conti e senza soldi in cassa. Punto e a capo.

E così arriviamo a oggi. Anzi a ieri, quando le presse di Stato – per la seconda volta dai tempi della Grande depressione (era già successo negli anni Novanta, come ricordano il “Los Angeles Times” e il “New York Times) – hanno preso a stampare i primi 29.000 “pagherò”, per un controvalore di 53 milioni di dollari. Che serviranno per pagare una tranche di rimborsi fiscali ai contribuenti californiani.

Cambiali – che ricordano vagamente e pericolosamente i patacones e l’altra carta straccia messa in giro dall’Argentina ai tempi del crac – e che non piacciono alle banche. Gli istituti di credito che li accetteranno al posto dei dollari dai loro clienti, infatti, riceveranno il 3,75% di interessi. Ma avrebbero preferito – come ha detto una portavoce della banca americana Wells Fargo in un comunicato (riportato dal blog del Financial Times) – farne a meno. Questione di stile e di immagine della California, come ha scritto la portavoce di Wells Fargo. Ma – immaginiamo – anche di soldi. Che le banche – forse – avrebbero preferito avere – come recita un vecchio detto – “pochi, maledetti e subito”.

Difficile dire come la California riuscirà ad uscire da quest’empasse. E la cosa appunto – visto che si tratta di un’empasse più che altro politica (non è che la California sia diventata all’improvviso povera; anche se la disoccupazione ha già passato il 10% quest’anno) – può far sorridere sulle allergia alle tasse degli americani. O far tremare i più pessimisti, che potrebbero vederci un pessimo segnale per il futuro. Ma più che altro dovrebbe far riflettere.

Prendendola alla larga. Quest’autunno a Londra, un gruppo di manifestanti aveva protestato di fronte alla Banca d’Inghilterra, al grido “non pagheremo questa crisi”. Avevano visto lontano. Ma le cose sono andate diversamente. Tutti gli Stati – Stati Uniti e Gran Bretagna in primis – si sono fatti carico dei bilanci disastrati di banche e aziende (vedi General Motors e Chrysler), quindi – e di fatto – del debito creato da privati. E ora sta per arrivare il conto. Che verrà spalmato su tutti i contribuenti. Sotto forma di tasse. O di inflazione. Che distruggendo il valore della moneta, distruggerebbe anche il debito (ma pure gli stipendi).

Perchè questa premessa? La California non è alle prese con l’inflazione. E nemmeno con un aumento di tasse per colpa dei salvataggi delle banche. Semplicemente: patisce i primi contraccolpi di una crisi che ha provocato i primi buchi nelle case dello Stato (anche a causa di un brusco calo del gettito fiscale, causa licenziamenti). Buchi che andranno riempiti. Ma che i cittadini californiani non ne vogliono sapere di ripagare con i loro soldi. Forse per effetto di una politica che da 20 anni – dai tempi di Ronald Reagan – le elezioni le vince a colpi di slogan stile “no more taxes”. O forse perchè hanno visto che i principali responsabili del problema – banchieri e magnati di Wall Street (salvo i Bernard Madoff di turno) – non hanno pagato per i loro errori. Perchè i licenziati se sono andati con le valigie cariche di dollari. Ma molti sono rimasti tranquillamente al loro posto. Mentre chi doveva vigilare e non l’ha fatto – in alcuni casi – è stato addirittura promosso. Come l’ex presidente della Fed di New York, Timothy Geitner. Che ora è ministro del Tesoro.

Sia come sia. Questa crisi ha un costo. E qualcuno lo dovrà pagare. Quello che accadrà in California potrebbe dirci molto del futuro degli Usa. E – chissà – forse anche del nostro. Che speriamo non sia all’insegna del caos.

P.S. Per chi non fosse pago: qui, trovate un articolo del Christian Science Monitor su tutti gli Stati americani in difficoltà con i loro bilanci. In cima al post, invece, un servizio di Russia Today sulla crisi fiscale californiana. Io lo trovo un tantino compiaciuto e voi?

 

Link