Uno degli aspetti più indagati e allo stesso tempo meno chiari delle guerre è il punto di vista dei combattenti.

Dal nostro inviato

Uno degli aspetti più indagati e allo stesso tempo meno chiari delle guerre è il punto di vista dei combattenti. Non i generali pieni di stellette, ma i soldati comuni, i giovani strappati alle loro vite e precipitati in contensti dove la disumanizzazione del nemico è parte integrante del processo di rimozione che riesce, in certi casi, a rendere possibili violenze senza alcuna giustificazione. A volte, però, in questo meccanismo, qualcosa s’inceppa. E’ il caso di Yehuda Shaul, 25 anni, militare israeliano dei corpi speciali. All’inizio della Seconda Intifada, nel 2000, Yehuda è stato mandato nei Territori Occupati, a Hebron in particolare. Nel 2004, alla fine del suo servizio militare, ha deciso che la gente doveva sapere quello che i militari facevano ai civili palestinesi. Ha fondato Breaking the Silence, un’associazione che si occupa di raccogliere e diffondere le testimonianze dei militari che hanno prestato servizio nei Territori. Perchè solo rompendo il silenzio attorno a questa violenza, si può capire cosa vuole davvero dire la guerra.

Yehuda Shaul

I giorni dell’operazione Piombo Fuso sono drammatici per i palestinesi, ovviamente, ma anche per gli esponenti della società israeliana che non si rivedono in questa visione ella sicurezza nazionale che giustifica massacri indiscriminati.

Cosa pensa di questa guerra?
In quanto ex soldati abbiamo discusso a lungo nelle ultime settimane, migliaia di volte.
Ma sa di cosa si occupa Breaking the Silence, qual è la sua impostazione? Non sentirà mai da me, come dire, un commento sulla guerra, se questa guerra è giustificata oppure no, non è questo il compito dell’associazione. La sola cosa che penso, su quello che sta accadendo a Gaza in questi giorni, il mio modo di vedere, è che questa non è una guerra.

In che senso, scusi?
Risponderò alla sua domanda con un’altra domanda. Qual è la differenza tra quello che sta accadendo ora e quello che è accaduto otto mesi fa? In operazioni chiamate… non so… Inverno Rovente o Pioggia d’Estate. Qual è la differenza? Perché all’epoca erano semplicemente operazioni che non hanno attirato l’attenzione in Israele o all’estero, della sinistra o della destra, e adesso invece è un orrore? Qual è la differenza? Che lo Stato d’Israele l’abbia chiamata guerra? Qual è la differenza? I soldati sono entrati a Gaza otto mesi fa, un anno fa, tre anni fa, tre anni e mezzo fa, con l’operazione Giardino del Re. Basta controllare la cronaca. Ogni sei, sette mesi si ha un’invasione di Gaza. Ma non come questa. E perché? Per il numero di soldati? Non sono d’accordo. Abbiamo avuto operazioni con un numero elevato di soldati. Nella missione di otto mesi fa quasi trecento palestinesi sono stati uccisi, dopo che due bambini di Sderot erano stati uccisi dai razzi Qassam. Allora l’esercito è entrato a Gaza e quasi trecento persone sono state uccise, armate e non armate. Questa come si chiama? E nessuno ha detto niente. Per me tutto questo è uno di quei ‘segni di guerra’ contro cui Breaking the Silence ha deciso di costituirsi. Quando diventi abituato al male, il male non è più tale per nessuno. Alla fine del 2003 si è avuta l’operazione chiamata Giardino del Re. L’esercito, per errore, ha demolito cinquanta case a Rafah. L’operazione è stata fermata e il comandante della divisione è stato costretto alle dimissioni. Anche nel maggio 2004 ci fu un’operazione e centinaia di case furono demolite, ma nessuno ha dovuto dimettersi. E poi, all’inizio del 2005 un’operazione in cui è morto uno dei miei soldati. Sono morti venti civili palestinesi. Ma non è successo niente, il limite si sposta sempre oltre. Così adesso puoi saltare a centinaia di vittime e hai bisogno di chiamarla guerra. Non hai bisogno di una guerra, hai bisogno solo di chiamarla guerra. Così puoi superare i limiti senza critiche. E tutto il mondo ti si stringe intorno… Credo sia solo una questione di manipolazione, un modo molto cinico di utilizzare la parola guerra, per essere autorizzati a compiere cose che non hai compiuto prima, non tanto per la qualità, quanto per la quantità. In scala. Non vedo niente più che questo. E’ ovvio che questa guerra non risolverà nulla, la maggioranza degli israeliani lo sa. Non sarà la fine dei razzi Qassam, Hezbollah continuerà a lanciare i suoi razzi, Sderot e altre cittadine israeliane continueranno a essere colpite… Penso solo che tutto questo sia un pessimo segno per tutti noi, per l’intera società israeliana, per gli ebrei nel mondo, perché se non fosse stata usata la parola guerra, nessuno si sarebbe opposto, nessuno sarebbe stato così attivo nel tentare di fermarla, come adesso. Otto mesi fa, circa 270 palestinesi sono stati uccisi, e nessuno si è opposto. Vedo solo moltissimo cinismo, in tutto questo. Preferisco usare il termine operazione, perché questo è quello che credo sia, non una guerra. Siamo messi male se abbiamo bisogno di chiamarla guerra per opporci.

Quali sono, invece, le reazioni della società israeliana?
Una volta che l’hai chiamata guerra… Contro un’operazione militare puoi opporti, puoi manifestare in strada, ma quando è una guerra devi stare dalla parte del tuo Paese. E per questo che viene chiamata guerra prima di essere realmente guerra. Dovremmo indagare dentro di noi, per capire cosa è accaduto… Perché abbiamo bisogno di chiamarla guerra per batterci? A favore o contro, poi non importa. Perdi così tanto la tua sensibilità che hai bisogno di raggiungere la cifra di cinquecento persone. Riflettici un momento, cazzo, cinquecento persone! Sono cinquecento famiglie! Cinquecento mondi! Ma alla fine diventa semplicemente un numero, niente di speciale, e otto mesi fa erano 270, 280, 220, e adesso sono seicento e così via. Sono molto perplesso.

Lei, però, non è una persona normale. E’ stato un soldato, che dalla sua esperienza ha deciso di rompere il silenzio. Può essere che tra i militari non prevalga un senso di smarrimento, un’idea di ingiustizia inflitta ai civili palestinesi?


Eldad, un clown di Tel Aviv che prende in giro i soldati

Cosa intende? Che adesso sono i soldati le vittime della guerra? Noi non siamo gente che ha rifiutato di partire, non ci occupiamo di refusenik, siamo gente che ha deciso di denunciare, di parlare, di spiegare cosa fa l’esercito. Il mio lavoro non è analizzare la situazione politica, trovare una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi. Io voglio che questa occupazione finisca perché sono stato un’occupante, perché so cosa significa. E qui comincia e finisce Breaking the Silence: noi vogliamo raccontare cosa abbiamo fatto come soldati. Sederci intorno a un tavolo, e raccontare, spiegare quali sono le conseguenze, cosa implicano operazioni come quella in corso a Gaza. So che ci sono dei membri di Breaking the Silence che ora sono stati richiamati e hanno rifiutato, come ci sono altri membri ora in servizio, ognuno decide da solo. Il nostro lavoro sarà raccontare cosa è accaduto. Gaza è sempre stata un posto estremamente diverso dalla Cisgiordania. La Cisgiordania è un asilo, al confronto. Il problema di Breaking the Silence è che noi lavoriamo in differita, in un certo senso, con uno scarto di un anno o due rispetto agli eventi, perché dobbiamo aspettare che i ragazzi finiscano il servizio militare e che prima rompano il silenzio dentro se stessi, poi si alzino a denunciare. Per cui io non posso dirti cosa sta accadendo a Gaza adesso, ma se guardo indietro nel tempo, se guardo ai membri di Breaking the Silence che hanno servito nelle varie operazioni condotte a Gaza, uno, due, tre anni fa… del tutto fuori di testa. Oltre quello che possiamo immaginare. Le operazioni a Gaza hanno raggiunto un livello di corruzione morale tale che la Cisgiordania non ha mai conosciuto. Fino a quando non avrò qualcuno che deciderà di denunciare dall’interno, di dire questo è quello che io ho fatto a Gaza, e potrò credergli, dopo avere controllato e incrociato le testimonianze, i fatti le fonti, e allora potrò denunciare come Breaking the Silence. Ma fino a quel momento, possiamo solo dire che sulla base della mia, della nostra esperienza, probabilmente qualcosa di non positivo sta accadendo a Gaza. E ognuno deve poter decidere da solo, se essere parte di tutto questo oppure no.

Da ex militare, però, si sarà posto delle domande su quale sia l’obiettivo strategico di questa operazione?
Non sono un esperto militare e non faccio analisi. Ritengo che quello che accade a Gaza non sia una questione militare. E’ una questione politica. Niente a che vedere con l’esercito. Nel senso, l’esercito è lì, che agisce, ma tutto questo non riguarda l’esercito, riguarda qualcosa di veramente fondamentale nella nostra società, qualcosa di più o meno invariato dalla Seconda Guerra Mondiale. Da allora esiste una sola istituzione in Israele che elabora piani e programmi, nell’ipotesi che accada qualcosa. Questo è l’esercito. Nessun altro ministero ha una pianificazione, è incredibile. Solo l’esercito. Così si è avuta l’ultima guerra in Libano. Un soldato viene rapito, e si riunisce il governo, per capire cosa fare. Nessuno sa cosa fare. Oh, bene, l’esercito ha pronte tre operazioni, tre opzioni possibili. Come l’ebraico, l’unica lingua che so parlare, è la violenza l’unica lingua che conoscono. E’ una cosa che tocca molto nel profondo il nostro modo di pensare in questa società, di risolvere i problemi. Abbiamo un problema, dobbiamo risolverlo, questa è la nostra unica opzione, anche se poi non è un vero modo di risolverlo. Rispondi nella lingua che conosci. E noi rispondiamo con l’esercito. E’ l’unica lingua che comprendiamo. L’unica lingua con cui comunichiamo. Non è una questione militare. Credo sia una vergogna per questo Paese. Prendiamo razzi ogni giorno e il governo non fa niente. Puoi discutere politicamente su cosa sia meglio fare, dialogare con Hamas, invadere, bombardarli con armi nucleare, rinchiuderli tutti in carcere… Puoi discutere sul da farsi. Ma che il governo rimanga inerte, così a lungo… Hanno solo assediato Gaza, ma questo non è un fare qualcosa. E allora? Cosa fai? Non è che ripeti gli errori altrui, ripeti i tuoi stessi errori. E’ veramente stupido.

Quali sono i progetti di Breaking the Silence, per il futuro?

Il futuro? Questo Paese non ha futuro… Quando la gente viene da noi, e ci chiede cosa abbiamo ottenuto, io rispondo sempre che non credo sia possibile cambiare una società in due anni, o quaranta. Ma voglio sottolineare una cosa: se fosse venuto cinque anni fa, quando abbiamo fondato Breaking the Silence, a dirmi che oggi saremmo stati seduti qui, dopo seicento testimonianze raccolte avrei solo riso. Eppure è successo. Seicento persone hanno rotto il silenzio, e credo che questo sia il grande risultato che abbiamo raggiunto, e queste seicento persone hanno amici, fidanzate, famiglie… Ma la cosa più importante è che ora le loro storie sono lì fuori, e se qualcuno è interessato a sapere cosa è accaduto qui tra il 2000 e il 2008, adesso ha seicento persone che parlano, a voce molto alta, raccontando la verità. So che può sembrare niente, ma io penso che è tutto. In Israele c’è una sola cosa su cui davvero Breaking the Silence può avere un impatto: quando verrà il giorno che la società israeliana costruirà la sua propria storia, e cercherà di capire cosa è successo in questi anni, durante la Seconda Intifada, la versione dominante sarà costretta a fare i conti con noi. Non dico che dovrà accettare il nostro punto di vista, ma come minimo confrontarsi con noi. Sono cresciuto in Israele, alla fine degli anni Novanta, e non ho mai studiato la Prima Intifada, non ho mai saputo cosa è accaduto nei Territori Occupati durante la Prima Intifada, non ne ho idea. Arriverà il giorno che la gente vorrà ricostruire la storia della Seconda Intifada, e noi saremo lì, cercando di inserire la nostra prospettiva nella storia di quello che è accaduto qui.
Ed è stato utile, ha avuto senso interrompere la mia vita e fare questo.

Lei è religioso. Nel mondo moltissimi hanno un’ottima opinione della cultura ebraica. Ma questa situazione non rappresenta un problema per l’immagine degli ebrei nel mondo?

Cosa intendi per situazione, le politiche israeliane? Sì, ma anche per i cristiani, i musulmani che vivono qui. In Israele, non all’estero, gli ebrei vengono uccisi perché sono ebrei. Poi possiamo discutere, certo, perché succede, politicamente… Ma è un fatto. Se è una continuazione del vecchio antisemitismo, o se è un fenomeno nuovo, non so, ma credo che la questione di che cosa sia il giudaismo, e chi sia l’ebreo, sia una delle ragioni per cui sto combattendo. Faccio quello che faccio perché penso che quando viene compiuto qualcosa come questo, e in tuo nome, non ti è concesso di rimanere in silenzio. Credo che quanto più ti avvicini al centro degli eventi, tanto più hai responsabilità, e questo è il punto in cui il giudaismo entra in gioco, perché tutto questo non avviene solo nel mio nome in quanto israeliano, ma nel mio nome in quanto ebreo, e nel nome di tutti gli ebrei nel mondo, e poi… E poi tocca a voi, ragazzi, nel nome degli esseri umani. Questo è il modo in cui vedo il coinvolgimento dell’intera comunità ebraica in quello che sta accadendo. Anche se non vogliono, gli ebrei nel mondo sono rappresentati da noi, perché rivendichiamo di essere i loro rappresentanti . C’è un proverbio, nella cultura ebraica: "Se taci, acconsenti". Non importa che ti piaccia o meno, sei moralmente obbligato a rispondere, a prendere posizione, sei responsabile di questa guerra. Sei moralmente obbligato ad agire. Questa è la connessione che vedo tra quanto sta accadendo e il giudaismo.

Christian Elia

Fonte: http://it.peacereporter.net