Intervista con l’avvocato Lea Tzemel dell’Ong israeliana B’tselem

Dal nostro inviato

Lea Tzemel è un avvocato molto noto in Israele. Non per aver vinto cause da milioni di dollari, ma per aver difeso sempre nella sua vita i palestinesi. Una spina nel fianco del sistema giudiziario israeliano, nel 1989 fonda assieme a noti giuristi, parlamentari, giornalisti ed esponenti della società civile B’Tselem, The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories, un organizzazione di tutela legale e di monitoraggio delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi.
L’organizzazione B’tselem, sta lavorando a qualche azione legale particolare rispetto a quello che sta accadendo in questi giorni nella Striscia di Gaza?
Il nostro lavoro continua nello stesso modo di sempre, come prima di questo attacco e come continuerà dopo questa operazione. La situazione, terribile, non cambia. Per noi la guerra è ogni giorno. La differenza è solo che ci prepariamo a difendere le migliaia di persone che in questi giorni sono state arrestate. E’ normale, ed è anche giusto, che in questi giorni tutti parlano delle vittime e dei feriti, ma nessuno sta parlando degli arresti di massa e delle conseguenti deportazioni da tutta la Striscia di Gaza.
C’è un settore specifico sul quale vi concentrate?


Ci muoviamo come sempre. Offrendo supporto legale ai palestinesi sia rispetto alle corti militari che rispetto alle corti civili. Anche se, negli ultimi anni, ci battiamo particolarmente contro un nuovo status introdotto dalla giurisdizione israeliana: quello di ‘combattente illegale’. E’ una differenza importante, perché questi prigionieri, rispetto ai prigionieri di guerra, vengono sottratti alla applicazione della Convenzione di Ginevra. Esattamente quello che è accaduto con la base di Guantanamo per gli Stati Uniti. L’applicazione di questa legge permette di detenere un prigioniero per lungo tempo, senza assistenza legale e senza processo. Allo stesso tempo, puntando alla giurisdizione internazionale, lavoriamo sulla possibilità di trascinare il governo d’Israele in giudizio per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Sia a livello di responsabilità individuali che collettive. Non siamo soli in questa battaglia, possiamo contare sull’appoggio di tante organizzazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani. E continueremo a lottare sia in Israele che in campo internazionale. Credo che, alla fine, ce la faremo.
Crede che, nell’amministrazione della giustizia in Israele, esista un problema di fondo legato alla considerazione dei diritti dei palestinesi? Com’è possibile che uno stato democratico arresti dei ministri di un governo che non è gradito? Ministri che sono espressione di un governo che ha vinto libere elezioni, come ha fatto Hamas?
Il problema é che Israele non si pone in modo democratico verso i palestinesi. Alle violazioni dei loro diritti che tutti conoscono e che vengono denunciate da associazioni come la nostra, si affianca una visione della società palestinese che non é democratica nel suo insieme. Come se Israele, da occupante, si arrogasse il diritto di decidere cosa è meglio per i palestinesi setti. Una sorta di approccio coloniale. Le elezioni vinte da Hamas, piaccia o no, sono state legali e trasparenti, come ammesso dalla stessa comunità internazionale. Israele non ha accettato queste elezioni, come se fosse un suo diritto scegliere chi doveva vincere. Questo è una negazione totale dei diritti di un popolo di esprimersi liberamente sulla sua vita e sulla sua forma di governo.
Questo accade, però, anche perché c’è una sostanziale accettazione della società israeliana rispetto a questo atteggiamento del governo verso i palestinesi? Perché questo succede?

Nella società israeliana c’è un diffuso sostegno alle politiche antidemocratiche del governo. Il bersaglio sono i palestinesi, non loro. C’è un sentimento diffuso di amor patrio, distorto e confuso, ma molto generalizzato. Un legame molto forte, anche con le forze armate di questo Paese. Un sentimento diffuso che nasce da un irrazionale paura degli arabi. Questo conflitto è simile a quello tra le truppe coloniali inglesi e gli indiani. I palestinesi non hanno alcuna possibilità materiale di distruggere Israele, ma un forte sentimento di paura è stato diffuso nella popolazione. E la popolazione accetta con entusiasmo questo regime di apartheid imposto agli arabi, perché lo percepisce come l’unico modo per sopravvivere. Non è un caso che le politiche nei confronti dei palestinesi siano il perno delle campagne elettorali in questo Paese. Quindi va bene anche questa mentalità fascista, che permette a una società di sentirsi al sicuro.
Ma chi è il colpevole di questa percezione errata del concetto di sicurezza?

Oh, è difficile rispondere a questa domanda…chi è il colpevole? Tutti! Tutti quelli che sostengono azioni criminali come la costruzione del muro. I media israeliani, la classe politica, ma anche gli Stati Uniti e gli stati europei che non prendono posizione. Alcuni pensano che non è stato sempre così, ma non credo che sia vero. Spesso la società israeliana ha reagito in base ai risultati di un attacco, non in base al fatto che non fosse giusto attaccare qualcuno. E’ diverso. Si rimprovera allo stato di aver perso troppi uomini, o di non aver adottato la giusta strategia. Ma sono davvero pochi quelli che contestano la violenza come strumento della politica d’Israele.
Tutti parlano di guerra adesso, ma spesso si dimentica che Gaza vive da più di un anno sotto assedio.

Sono d’accordo. Il numero di vittime civili crea indignazione, ma tenere per mesi una popolazione di un milione e mezzo di persone in una condizione disumana, senza pane e senza medicine, è un crimine immondo. Ancora una volta, però, viene strumentalmente usata la paura dei razzi come chiave per portare l’opinione pubblica a sostenere operazioni come questa. Intere famiglie sono state spazzate via, adesso con le armi, prima affamandoli. Questo è quello che accade, ma si parla dello choc dei cittadini di Sderot, non delle madri palestinesi che tengono i cadaveri in casa perché non possono uscire. Come fosse la stessa cosa.
Pensa che con il suo lavoro e quello della sua associazione, prima o poi, riuscirà a cambiare qualcosa nel sistema giudiziario israeliano?
Il sistema legale israeliano è parte fondante del sistema, distorto della sicurezza di questo Paese. L’unica soluzione è nel sistema legale internazionale, ma le protezioni delle quali gode Israele rallentano questo processo di democratizzazione del sistema legale israeliano. Un sistema giudiziario è espressione di un sistema culturale, e il problema in Israele per il rispetto dei diritti umani dei palestinesi è in primis culturale. Le confesso che non ho alcuna speranza che questo cambi, se non in un tempo molto lungo. Noi lottiamo all’interno di un sistema, cercando le faglie di una griglia antidemocratica. Ma siamo pochi a lottare in questo senso. Ricordo ancora che nel 1967, mentre il mio Paese occupava le terre di persone innocenti, c’erano festeggiamenti in tutto il Paese. Questa è la realtà, ed in questo sistema bisogna continuare a resistere.

Christian Elia

Fonte: http://it.peacereporter.net