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Federico Rampini

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In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.

Fonte: www.megachip.info