E’ arrivata una gran brutta notizia. C’è la certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Vittorio Feltri per sputtanare il direttore dell’Avvenire, Dino Boffo – scrivendo che era omosessuale; che aveva avuto una relazione con un uomo sposato; e che ne aveva molestato (telefonicamente) la moglie, beccandosi una condanna – si è servito squallidamente di una lettera anonima. Senza neppure verificarne i contenuti. Ieri i cronisti di mezzo Belpaese che si occupano della faccenda, hanno ricevuto dalla Procura di Terni il decreto penale di condanna per molestie a carico di Boffo. Ma del papello usato da Feltri&co, negli atti giudiziari non c’era e non c’è traccia. Di più. Quel papello è infarcito di errori e circostanze false. Per certo – lo scrivono “Corriere della sera”, “La Stampa”, e lo stesso quotidiano berlusconiano “Il Giornalela donna involontaria protagonista dell’ultimo scandalo boccaccesco di questa tragicomica estate italiana non era, all’epoca dei fatti, sposata anche perchè, allora, aveva circa 20 anni (e così l’accusa di essere un “rovinafamiglie” è andata a farsi benedire). E ancora: secondo Fiorenza Sarzanini, giornalista del Corriere:

Non è vero che «Boffo è stato querelato da una signora di Terni»: la denuncia era contro ignoti. Non è vero che «a seguito di intercetta­zioni telefoniche disposte dall’Autorità giudi­ziaria si è constatato il reato»: per le molestie non è possibile disporre il controllo delle con­versazioni. Viene poi specificato (nella lettera anonima usata da “Il Giornale”, NdA) che «Boffo ha tacitato la parte offesa con un notevole ri­sarcimento finanziario», ma è una circostanza che non risulta agli atti. Quanto alle inclinazio­ni sessuali dell’indagato, nel fascicolo non se ne fa mai cenno.

La lista di falsità e svarioni potrebbe continuare. Ma non è questa la brutta notizia.

Sempre ieri è spuntato anche il dubbio che pure i migliori possano sbagliare. Perchè Marco Travaglio – sposando la ricostruzione del “Giornale” di Feltri e senza tanti giri di parole – ha scritto che “il direttore di Avvenire, che s’è fieramente opposto ai diritti per le coppie omosessuali, ha patteggiato a Terni una pena pecuniaria di 516 euro per aver molestato la compagna di un tizio che, secondo quel che risulta dagli atti giudiziari, aveva con lui una relazione omosessuale“. Ma – stando a quel che ha detto il giudice per le indagini preliminari di Terni, Pierluigi Panariello – negli atti della Procura di Terni non c’è alcun riferimento a storie omosessuali. Di più, come ha osservato in punta diritto Danilo Paolini, cronista dell’Avvenire:

Non può esserci stato patteggiamento da parte di Dino Boffo, perché non c’è stato alcun processo a suo carico.(…) Non c’è una sentenza di condanna, ma soltanto un decreto penale che dispone il pagamento di un’ammenda.

Ma non è neppure questa la brutta notizia.

La brutta notizia è che Dino Boffo, tramite il suo legale – secondo quanto scrivono “Stampa”, “Corriere” e il solito quotidiano berlusconiano “il Giornaleha chiesto e ottenuto che gli atti giudiziari che lo riguardano, ad eccezione delle due-paginette-due del decreto penale di condanna, vengano secretate. Richiesta accolta dal gip, Panariello per “non recare pregiudizio al diritto alla riservatezza delle parti coinvolte”.

Alla faccia della libertà di stampa, della trasparenza, della coerenza e dell’amore per la verità del giornalista e cattolicissimo Boffo. Amen.

E così: grazie all’intervento dell’avvocato del direttore dell’Avvenire, ne sappiamo non di più, ma meno di prima.

  1. – Sappiamo, perchè così recita il decreto penale di condanna, che Boffo è stato condannato perchè “effettuando ripetute chiamate sulle sue utenze telefoniche nel corso delle quali la ingiuriava anche alludendo ai rapporti sessuali con il suo compagno (…) per petulanza e biasimevoli motivi recava molestia (…)”.
  2. – Sappiamo, perchè così recita il decreto penale di condanna, che l’accusa di ingiuria (”la ingiuriava…”) è caduta perchè la vittima ha ritirato la querela. Ma non sappiamo perchè la vittima abbia ritirato la querela.
  3. – Sappiamo, perchè così recita il decreto penale di condanna, che i fatti – cioè le molestie telefoniche – sono avvenute a Terni (dove viveva la vittima) tra l’agosto del 2001 e il gennaio del 2002.
  4. – Sappiamo, perchè così recita il decreto penale di condanna, che il direttore del quotidiano dei vescovi è stato condannato a pagare un’ammenda di 516 euro.

Poi ci sono punti fermi un po’ meno fermi.

  • – Sappiamo – ma solo perchè lo dicono Stampa, Corriere e Il Giornale – che la vittima delle molestie, il cui nome nel decreto penale di condanna era malamente coperto da un tratto di penarello (e quindi lo si leggeva mettendo il foglio in controluce), all’epoca dei fatti avrebbe avuto poco più di 20 anni. E che la sua famiglia a Terni sarebbe molto conosciuta e molto vicina alla Curia.
  • – Infine – ma sempre perchè così scrivono Stampa, Corriere e Il Giornale – sappiamo che la ragazza e la sua famiglia non vorrebbero parlare della faccenda. Come del resto il direttore dell’Avvenire. Che fin qui ha discettato molto di carte (la lettera anonime, gli atti giudiziari). Ma si è ben guardato dal rilasciare un’intervista – o firmare un editoriale – raccontando la sua versione dei fatti.

Risultato: i dubbi sono ancora più di prima. Certo: ora è sicuro che la condanna per molestie (anche se si tratta di una modesta ammenda) c’è. Ma Dino Boffo è davvero omosessuale? Ha davvero avuto una relazione con il fidanzato della ragazza molestatata? E’ vero, come recitava la lettera anonima usata dal quotidiano diretto da Vittorio Feltri, che del reato che ha commesso Boffo e della sua omosessualità erano “indubbiamente a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori”? E se sì: che ci fa Boffo ancora alla guida di un giornale che dell’etica cattolica non fa solo la sua bandiera, ma la sua ragion d’essere?

Difficilmente – a questo punto – si arriverà ad avere altre matematiche certezze (giudiziariamente parlando). Ma una cosa è sicura: il direttore dell’Avvenire ha dimostrato non solo di essere un fervente cattolico. Ma di essere un convinto sostenitore della scuola del “Fate quel che dico, ma non dite quel che faccio”. E il Vaticano, che sicuramente avrà sposato o – chissà – ideato questa linea, idem. Meglio prendere nota.

A proposito:  a quando l’intervento dei sedicenti alfieri della libertà di stampa e degli amanti delle domande difficili per chiedere al collega direttore dell’Avvenire non solo di dare spiegazioni, ma di smollare almeno le carte (giudiziarie) che lo riguardano?

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