DI LUCA PAKAROV
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Dopo il 24 giugno, giorno dell’uccisione di un funzionario del ministero degli interni per un pacco bomba, i controlli intorno al quartiere Exarchia di Atene sono aumentati. Si noti bene intorno, non dentro. Già perché qui la polizia per intervenire deve essere scortata dai Mat, dei gruppi speciali antisommossa inclini a metodi poco ortodossi, che in verità si addentrano solo quando il governo sollecita dei raid, degli arresti mirati, di solito i giorni successivi alle grandi manifestazioni che ormai si ripetono settimanalmente. Le esplosioni, e non solo ad Atene, negli ultimi mesi si sono moltiplicate, per molti sono state il trampolino per una nuova strategia di lotta, un passo in più verso uno scenario che nessuno si azzarda a chiamare guerra civile ma che, da come mi descrivono il prossimo futuro alcuni ragazzi del giardino autogestito fra via Trikoupi e Metaxa, non è troppo dissimile. Uno studente del politecnico che dice di chiamarsi Evgenios si spinge più in là e parla di armi, armi rubate alla polizia, armi arrivate dalla frontiera, sia come sia, armi che sono nel quartiere e di certo non custodite nella teca di un collezionista.
Settembre ottobre. In ogni chiacchierata avrò sempre la stessa conferma, settembre ottobre, come termine ultimo di questa mezza tregua con il potere, settembre ottobre come termine primo di quella rivolta che ha però la sensibilità di non compromettere l’unica azienda funzionante, quella del turismo. Inteso che ciò garantirà ai dimostranti un appoggio maggiore degli isolani.
Da quando sono qua ho incontrato diversa gente dell’Exarchia, gli studenti tendono a fare un quadro complicatissimo dei rapporti di forza fra i sindacati del privato Gsee e quelli del pubblico Adedy, l’EEK, il partito Operaio rivoluzionario greco e il KKE, partito Comunista greco, i gruppi anarchici e quelli solo simpatizzanti, unico denominatore comune, oltre al settembre ottobre di prima, rimane il disprezzo per le famiglie Papandreu e Karamanlis, i due clan che si sono alternato il potere nelle ultime decadi. Per un attimo, ogni volta che ascolto certi nomi di partito, mi sembra di essere piombato in altra epoca, ad anni luce da PD ed Italia dei Valori! L’Exarchia è il quartiere dove circa un anno e mezzo fa è stato ucciso il quindicenne Alexis Grigoropoulos, è il quartiere che molti media si sforzano di definire il più caldo d’Europa, nugolo di anarchici e no-global. L’Exarchia la puoi riconoscere anche dalla polizia appostata nei crocicchi alberati che ne delimitano il perimetro, poco fa, un’ora fa, prima che cominciassi a scrivere, i Mat erano in via Asklipiou, a gruppi di tre, con la loro divisa verde, il fucile per i lacrimogeni e lo scudo antisommossa. C’è anche un furgone blindato da cui gli agenti salgono e scendono. Chiedo ad un edicolante se sia normale. E’ normale, le provocazioni dei Mat sono all’ordine del giorno, mi dice, il quartiere vive in pace ma se volessero fare anche solo una multa dovrebbero intervenire in dieci. E non ne uscirebbero.
La scena ricorda alcune foto degli anni ’70, sotto il regime militare, che si possono scorgere fra le migliaia di manifesti con cui sono tappezzati i muri del quartiere e che sembrano avvisare una deriva che se molti temono, altri si auspicano. Da un lato e dall’altro. Già perché arrivati a questo punto c’è da aggrapparsi a qualcosa e la sommossa, anche se può uccidere, è fede e gioia, il benessere presunto non conduce alla pace come si è scoperto, l’unica vera pace è interiore e questo tipo di benessere che si espande ad orologeria non la annovera fra i suoi valori fondanti. Ma d’altronde, in cosa si dovrebbe sperare, nell’America, nella Russia, nell’ecologia? Da qui ci vuol poco a capire che siamo spacciati, tutti, visto che autentici piani d’emergenza non ce ne sono. Sicché pragmatismo e fede, paradossalmente, nei greci diventano un unico critico corpo solo.
Questo stato di cose complica abbastanza la convivenza. Ma per le strade regna la calma, si gioca a scacchi, alla dama, al tris, in alcune vie ci sono tavoli da pingpong, nella piazza Exarchia c’è un canestro con cui si sfidano improbabili cestisti, uno con la cresta ed un capellone contro due ragazze con sandali, gonnellino e leggings scuri. Un uomo appartato in un angolo suona la sua chitarra, sopra, legato a due alberi, un manifesto pieno di segni ellenici di cui comprendo solo il simbolo anarchico. Un perfetto e funzionante caos da cui emerge una rilassatezza inquietante perché, comunque, ad ascoltare loro, presto accadrà il grande boom, a settembre ottobre. E lo si capisce per come mi accolgono, per la voglia che hanno, tutti, di raccontare come le cose stanno veramente, lo straniero è ben venuto perché qui, quello che di più serve, sono testimoni. A questo quartiere vorrebbero staccare la spina, spegnere la voce, ci hanno provato con la perizia balistica sul proiettile che ha colpito Alexis, di rimbalzo, per difesa hanno detto, e senza pensarci due volte la gente è scesa in strada ed ha appiccato il fuoco ad automobili e negozi. Curioso è il fatto di come un figlio della ricca borghesia ateniese (la famiglia di Alexis possiede una nota gioielleria a Kolonaki e vive in uno dei quartieri esclusivi della città) sia diventato il simbolo di un movimento anarcorivoluzionario. Facile dedurre che si sia trattata della classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
In pochi mesi ha scioperato ogni tipo di lavoratore, pescatori, contadini, piccoli imprenditori, impiegati, professori, ospedali, banche, uffici pubblici e via dicendo. Capisco insomma che è la tranquillità malinconica dell’equilibrista prima dello spettacolo, che prima o poi, a settembre ottobre mi ripeto anch’io, se ne vedranno delle belle. Anche questa è una caserma che si sta preparando al peggio, giocando a basket. Gli eruditi, le piattole che gridano al buon senso sono rintanate sotto l’Acropoli e nel quartiere Kolonaki. Parola di Georgios, attivista di uno dei mille gruppi anarchici della città che mi invita a una birra. Gli racconto che tempo fa su l’Unità ho letto l’intervista a uno scrittore greco che li definiva “figli degeneri senza progetto ed idealità”. Georgios mi risponde che oggi non servono ideali o progetti insurrezionalisti per dar fuoco a banche o a case di politici. Come dargli torto. In effetti si cerca di farli passare per una manica di svitati ma poi, quando ti siedi solo in un bar, poco a poco si viene inglobati in una tavolata numerosa, in cui non manca un professore universitario, un ricercatore, uno appena tornato dall’India. E’ come se ti volessero lasciare una preziosa eredità. Ti raccontano mille storie, vogliono sapere come va da noi, si gioca a ribasso sulle mille scempiaggini dei rispettivi governi ed io, come italiano, ho delle buone carte, ma, pare impossibile, qui non bastano per vincere. Prostituzione e corruzione, certo, potere e clientelismo, concussione, come no, ma il piatto lo vince comunque l’omicidio di stato, argomento granitico di ogni buon greco dell’Exarchia. Oh, sia chiaro, anche da noi viene praticato continuamente, ma è difficile render conto del motivo per cui non mettiamo a ferro e fuoco una città. Almeno che non ci sia il calcio di mezzo, voglio dire.
Ho l’impressione che tutti sappiano chi io sia, anche se non sono nessuno, sanno cosa stia facendo qui anche se di preciso non so nemmeno io cosa sto cercando ad Atene. Che io intenda solo tre parole di greco li rassicura anche se, nei primi di luglio, il capo della polizia italiana Manganelli è venuto a rovinarmi la piazza, con un vertice sul terrorismo. Ma un infiltrato della polizia non regge tante birre.
Ho un appuntamento in piazza Exarchia, alle 11 di mattina. La mia stanza è poche strade più a valle, in via Ipirou. Kalatami arriva puntuale, mi dà la mano, vuole farmi vedere alcune cose della città. Ho conosciuto Kalatami qualche sera prima, lui serviva nella taverna in cui mi ero fermato con un amico e dove fui partecipe di una piacevole scenetta: due signore dall’aspetto distinto parlano di crisi e di denaro, è il mio amico a tradurmi ma il nocciolo è che le signore in questione sono concordi con la politica di ristrettezze di Papandreu, la necessità che tutti paghino i misfatti di pochi. Kalatami, che non ha molti tavoli da servire, ad un certo punto sbotta, roteando i piatti sporchi che ancora tiene in mano spiega che fino a sei mesi prima lui lavorava come tutti gli altri, che ha studiato per fare l’informatico ed ora è tornato a servire nei ristoranti, lui ha una famiglia, due figli da sfamare e non posside di certo tre o quattro case nel Kolonaki (il quartiere bene dietro al parlamento in cui molti appartamenti sono di politici o familiari di politici) spiega che le banche non hanno concesso più credito alla sua impresa per permettersi gli appalti più importanti, insomma è sulla strada, o quasi. Le due signore rimangono a bocca aperta, sono spaventate anche perché il tono di Kalatami è salito fino quasi a gridare. Chiedono frettolosamente il conto ma Kalatami non le fa pagare, si scusa per la sua impulsività. Il proprietario della taverna che scoprirò essere suo zio, lo chiama dietro in cucina. Quando esce Kalatami ci guarda, fa un sorriso e dice, alla prossima mi caccia via. Poi si accende una sigaretta. Ecco il mio tipo.
Kalakatami fisicamente assomiglia un po’ al Katsimbalis di Herry Miller nel Colosso di Marussi. E’ forte ed agile. Non ha una religione e nemmeno una bandiera politica. La storia di Kalakatami in sé non ha nulla di eccezionale di questi tempi, l’impresa dove lavorava creava software per notai, poi l’azienda ha chiuso. E lui è tornato alla taverna dello zio per fare il cameriere: guadagna 40 euro per dieci ore giornaliere e si ritiene fortunato. Amen.
Per prima cosa mi conduce al Keramikos, la necropoli, qui ci sono i nostri antenati, ma poi mi fa attraversare due strade, Pireos e Agesilaou, e ci troviamo nel nuovo Keramikos: un quartiere cinese, né più né meno. E allora? Come allora? Ecco la nostra identità oggi, il mio accompagnatore ce l’ha con gli stranieri, ne sono entrati troppi, e tutti fanno affari sulle spalle dei greci. Il governo non fa nulla. I turchi oltrepassano continuamente il nostro spazio aereo e il governo prega la Casa bianca di intervenire. Va beh, dico io, passiamo oltre, e per ripicca al mio scetticismo mi porta a mangiare in un ristorante di un suo amico lì vicino. Pago io ed ordina l’impossibile. Il conto è spaventoso ma il fatto che mi abbia fregato mi rende Kalakatami più prossimo e più simpatico.
Da lì, il pomeriggio, il terribile pomeriggio assolato di Atene, il caro Kalakatami non trova niente di meglio che guidarmi in alto sul monumento di Filipappo, un monte a sud dell’Acropoli, mentre saliamo ci fermiamo cinque minuti a pregare davanti la supposta cella di Socrate, poi su in cima mi indica quello che secondo lui è il miglior panorama di Atene, là il Pireo, poi tutti gli altri quartieri, se tutta questa gente si ribellerà, sarà l’inferno. A settembre ottobre.
Seguimi sull’Acropoli e io mi rifiuto, dico che ci sono già stato, che l’unica cosa che mi interessava era il Peripatos, la strada che aveva illuminato tante menti eccelse della Grecia ma che, a mio dire, ha esaurito il suo influsso, e argomento dicendo che gli Dei se ne sono andati e gli spiriti di Aristotele o di Crizia si rifiutano di dispensare saggezza a tutti gli idioti subumani che pagano il biglietto per passare di là. Kalakatami mi guarda male, poi gli dico che ho percepito la loro assenza perché io sono uno dei pochi al mondo che merito quell’esperienza mistica. Va beh, risponde, passiamo oltre.
Poi Kalakatami mi chiede di Malesani, che fine ha fatto? Ha allenato il Siena, è retrocesso. E’ un buon allenatore dice lui. Lo pensi tu, rispondo. E’ un buon allenatore, è un mio amico, un giorno gli ho servito un’orata con patate. Spero che non gli abbia fatto pagare quello che è costato a me il pranzo. Certo che no. Allora è un buon allenatore. E così, in crescendo, si passa da un argomento all’altro, mi fa sapere, mentre ci dirigiamo verso la stazione metro Acropoli, che i tre morti alla Marfin Bank negli scontri del 5 maggio erano stati obbligati a lavorare per non essere licenziati. Che la banca era priva di ogni sistema antincendio. Mi sembra pochino per arrostire tre poveri cristi però, come dice lui, questa ormai è una guerra. Atene che fino a quel momento era una delle poche metropoli che non mi aveva trasmesso quella bassa frequenza di allarme che ovunque riscontro, per la prima volta da quando sono qua, mi spaventa, la leggerezza con cui Kalakatami usa la parola guerra mi innervosisce. Il Rubicone è stato attraversato, e se da una parte si è sempre pronti a parlare di cambiamento a qualsiasi costo, quando ho di fronte il fatto concreto, chissà prossimo, mi viene voglia di temporeggiare, di mettermi a tavolino. In altre parole scopro d’essere un codardo. Desidero tornare nella cella di Socrate ma ormai siamo a Omonia stazione.
Ci dirigiamo verso nord, Kalakatami ha il suo buon da fare per raccontarmi i cambiamenti della città, finché non arriviamo davanti al museo archeologico nazionale. Vuole farsi un giro Kalakatami che è un po’ che non ci va, tanto pago io. E al museo, come mi annoiai la prima volta con spade, maschere d’oro, collane, e poi statue di bronzo e di marmo, Agamennone e Poseidone, il cazzo di Schliemann che regalava alla moglie gli ori di Micene, mi annoio anche la seconda. Ma Kalakatami ha in testa un suo piano pedagogico preciso, la sua dottrina prevede il contrasto fra il lucente passato ed il putrido presente, così appena fuori prende a sinistra, poi ancora a sinistra e mi trovo nell’inferno. Nella via Tositsa che fiancheggia le mura del museo, c’è un florido mercato di eroina. Mi avverte che anche la via 3rd Septremvriou è così, che poi è vicino a dove dormo, mi fa sapere che gli junky sono stati cacciati dagli abitanti dell’Exarchia ma la polizia non fa nulla per allontanarli dal centro, che stanno aumentando a vista d’occhio con la crisi, che anche questo è – scontato – un piano del potere per fiaccare le coscienze. Non gli do torto ma nemmeno ragione.
Da lì si risale verso l’Exarchia ma bisogna stare attenti perché sandali e siringhe non vanno d’accordo, nessuno in compenso si avvicina a chiederci soldi e sigarette non tanto per me quanto per le spalle di Kalakatami. Su in cima, prima di entrare nel quartiere, i soliti posti di blocco dei Mat, un checkpoint in piena regola. Una barriera, un muro, un filo spinato di uomini verdi.
Il mio amico sgrana un komboloi verde, una specie di rosario laico, lo usa per non fumare. Me lo dona. Lo ringrazio ma l’avviso che continuerò a fumare, allora mi guarda di traverso amareggiato e mi domanda se non vogliamo per caso cenare in un ristorante di un suo amico. Mi è simpatico Kalakatami, ma non fino a questo punto. Ho un altro appuntamento. Il mio letto mi aspetta per riposare. Questa sera ti porto in una sala dove si balla il sirtaki e si beve uzo. No, grazie. In ultimo mi invita domani al Boozo Cooperativa, un locale in via Kolokotroni in cui si possono fare buoni incontri, delle teste calde. Non me la sento, ne ho abbastanza, gli garantisco però che andrò ai prossimi cortei, che lo chiamerò. Mi risponde che forse dovrà lavorare dallo zio. Rimango perplesso, allora non ci capisco proprio più niente. E forse non era esattamente il mio uomo. Chi cercavo?
Intorno a me, in piazza Exarchia, si continua a giocare a basket e agli scacchi. La miccia è accesa e il suo folle scintillio lentamente si avvicina a settembre ottobre.

Fonte: www.rollingstonemagazine.it/
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