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Ahinoi. La crisi economica – probabilmente la peggiore dalla Grande depressione – continua ad avanzare in tutt’Europa. E conquista home page e prime pagine dei giornali. Per dire, solo ieri, abbiamo letto che:

pallino-rosso.jpg Il valzer dei governi in bilico ha fatto poker. Con tanto di tonfo clamoroso. Mirek Topolanek – premier della Repubblica Ceca e presidente di turno dell’Unione europea – è stato sfiduciato dal suo Parlamento. Con lui: la lista dei governi caduti sotto il peso della crisi – che già ospitava Islanda; Lettonia e Ungheria – sale a quota quattro.  Per la cronaca: Topolanek è stato affondato, ieri, da un voto di fiducia sulle sue politiche per far fronte ai guai economici del Paese.

pallino-rosso.jpg Se il (quasi ex) premier ceco ha poco da stare allegro, anche il governo rumeno non ride. Anzi piange proprio miseria. La Romania infatti – ieri e per evitare il crac – è diventato il terzo paese dell’Est-Europa che ha dovuto ricorrere a un prestito di Banca mondiale, Unione europea e Fondo monetario internazionale. Riceverà 20 miliardi di euro. Prima dei rumeni: anche Lettonia (10 miliardi di euro) e Ungheria (25 miliardi di euro) avevano dovuto bussare alle porte di Bm, Ue e Fmi. Alcuni analisti, secondo quanto riporta la stampa, pensano che

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Quello che sta succedendo nell’Est-Europa, che dipende molto dagli investimenti stranieri e dalle esportazioni verso Ovest” ricorda “la crisi sofferta in America Latina negli anni Ottanta e in Asia negli anni Novanta, quando il Fondo monetario internazionale doveva correre in aiuto di queste economie, mentre i governi cadevano uno dietro l’altro”.

Non proprio un paragone confortante. Per lo meno dal punto di vista dei diretti interessati. E – forse – neppure per chi ci ha investito tempo e soprattutto denaro. Come l’italianissima banca Unicredit. Che, già settimana scorsa, si è “prenotata” per 4 miliardi di euro di aiuti di stato.

pallino-rosso.jpg Ma spostandoci da Est a Ovest: anche la Svezia – nel suo piccolo e con i suoi nove milioni di abitanti – ha le sue pene. Anzi: una bella gatta da pelare, chiamata Saab. Storico marchio dell’automobile, Saab oggi ha 15.000 dipendenti e 60 anni di storia. E appartiene agli americani di General Motors. Che però sono – a loro volta – a rischio crac. E se ne vorrebbero disfare. Unico neo: per il momento, nessuno la vuole. Neppure il governo svedese. La ministra dell’Industria, Maud Olofsson ha detto a scanso di equivoci che lo stato non ha nessuna intenzione di accollarsi questo fardello. E il solito analista pessimista, Stephen Pope, di Cantor Fitzgerald Europe, ha spiegato che, dal suo punto di vista, non c’è dubbio che tenga:

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“Saab non andrà lontano”.

Dovesse fallire, sarebbe la prima casa automobilistica vittima della crisi. Ma probabilmente non l’ultima. Sia come sia: un primato non proprio esaltante.

pallino-rosso.jpgEpperò: last but not least. Sempre rimanendo in Europa: ieri, la notizia del giorno, in realtà, era un’altra. Ed è andata in scena a Londra. Un’asta di buoni del Tesoro inglesi a 40 anni (i 40-year gilts) è “fallita”. Il governo aveva messo in vendita titoli per 1,75 miliardi di sterline. Ma – per la prima volta, negli ultimi 7 anni – non è riuscita a piazzarli tutti (ne ha venduti solo per 1,62 miliardi di sterline). Un brutto campanello d’allarme per i soliti analisti finanziari menagrami. Che hanno cominciato a sollevare dubbi sulla capacità del governo britannico di trovare i soldi necessari per finanziare le casse dello Stato e in particolare il mega pacchetto di stimolo all’economia messo in pista da Gordon Brown&Co.

Forse: quel segnale d’allarme è fischiato anche nelle orecchie del nostro ministro per il Welfare, Maurizio Sacconi. Che – qualche mese fa, intervistato nella trasmissione “Economix”, su Rai3 – si lasciò scappare che qui nel nostro (ex) Belpaese «non possiamo permetterci neanche lontanamente che vada deserta un’asta pubblica di titoli di Stato. Ci sarebbe una carenza di liquidità per pagare pensione e stipendi e faremmo come l’Argentina». Ma per certo: quest’asta fallita a Londra non ha fatto gran rumore nelle redazioni dei principali giornali italiani.

Dirà qualcuno di voi: in effetti, queste notizie non mi sono granchè familiari. Certo. Perchè stavano sulle prime pagine (o le home page), sì. Ma mica dei giornali italiani. Che tutt’al più oggi – quando le hanno date – hanno piazzato queste notizie nella sezione economia e dintorni. Quel che è accaduto in Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Gran Bretagna stava solo tra le top news di media ansiogeni e disfattisti – come direbbe il nostro premier – stile “Financial Times”; “The Guardian”; “El Paìs” e “Le Monde”.

Ma: c’è da capirli. Ieri: le Cnn e i NewYork Times de noantri erano troppo impegnati a inseguire la ricca agenda dettata da destra&sinistra&centro. Che prevedeva, tra l’altro, una bella litigata sul piano (casa) di turno. E l’happy end per il termovalorizzatore di Acerra (con tanto di tirata d’orecchie ai disoccupati scansafatiche). E oggi, poi, non ne parliamo – tra scaramucce sul biotestamento; scontri tra Berlusconi&Fini per alti fini istituzionali e lamentele (varie) di Confindustria – spazio e tempo per recuperare non ce n’è. E neppure per parlare delle esportazioni dimezzate in Giappone (altra notizia di ieri). O dei tagli (ai servizi) al sistema di trasporto metropolitano di New York (pure lui a rischio crac).

Del resto: cascasse il mondo, se uno ha preso un impegno (sempre in agenda, s’intende) dovrà pur rispettarlo. O no?

P.S. Perchè “Prima pagina (march edition)”? Perchè a gennaio di quest’anno avevamo fatto un post con lo stesso titolo. Che aveva notizie diverse. Ma suonava la solita solfa. Lo potete leggere qui.

Il tempo passa, le cose – purtroppo – non cambiano.

Fonte: www.bamboccioni-alla-riscossa.org