Washington Post, marchetta, scandalo, bamboccioni, bamboccioni alla riscossa

Dal Watergate alle marchette, il passo non è breve. Ma il “Washington post” – sì proprio il giornale di Carl Bernstein e Bob Woodward, i due segugi che presero il presidente Nixon con le mani nel registratore sbagliato – la strada del tramonto è riuscito a farla tutta. E – va detto – anche con una certa classe.

E infatti e per la cronaca: la crisi economica non sta certo risparmiando i media a stelle e strisce. I lettori calano. La pubblicità, pure (tanto che le spese per gli spot, nei primi tre mesi del 2009, sono calate negli Stati Uniti di un buon 12%). E i giornali – anche quelli blasonati – non fanno eccezione. Il “Boston Globe” e “Business week” (che ha visto le pagine di pubblicità calare da aprile a giugno del 34%) sono in vendita. Mentre il “Washington post” ha provato a battere un’altra strada. Quella – più originale – dell’affitto.

I fatti nudi e crudi – per come sono stati messi in fila dal giornale on line “Politico”, prima; e dal “New York Times”, poi – parlano chiaro. A inizio luglio, a Washington girava una brochure – insomma, un volantino, ma un po’ più di lusso – che in sostanza diceva: che ne direste di una seratina, anzi di una serie di seratine a tema, a casa dell’editore del Washington post, con un bel po’ di invitati di eccezione, tipo membri del Parlamento, dell’amministrazione Obama, più una bella pattuglia di giornalisti (ovviamente sempre del glorioso Washington Post)?

Ovviamente: la brochure era stata distribuita ai cosidetti lobbisti (cioè rappresentanti della grande industria). Ovviamente: tutto quel che si sarebbe detto o fatto sarebbe rimasto rigorosamente off records (cioè i giornalisti avrebbero rispettato la regola aurea di casa Cosa nostra, quella dell’acqua in bocca). E ovviamente non erano gratis: il volantino proponeva una serata a 25.000 dollari (per ogni lobbista); oppure tutta la stagione di salotti a 250mila dollari. Insomma: inciuci a prezzi modici. Unico neo: il primo appuntamento – una bella serata sulla riforma sanitaria americana prossima ventura (titolo sibillino: “Health care reform: better or worse for americans?”) – non è mai andata in scena. Perchè i giornalisti della redazione di Politico hanno fatto esplodere lo scandalo. E il “New York Times” ci ha pure ricamato sopra. Scrivendo nero su bianco che:

The absence of a credible explanation, compounded a grievous wound to an important newspaper.

L’assenza di una spiegazione credibile aggrava una dolorosa ferita per un importante giornale.

La proposta indecente dell’editore del Washington post – al secolo Katharine Weymouth, per la cronaca nipote dello storico proprietario del Washington Post, Eugene Meyer che comprò il giornale nel 1933 – ha fatto molto rumore negli Stati Uniti. Ma sui media italioti – ultimamente tanto attenti alla stampa straniera e ai suoi giudizi sul Belpaese – stranamente non ha trovato grande spazio (anzi: chi scrive direbbe nessuno, ma non si sa mai). Un vero peccato. Perchè gli italiani avrebbero avuto di che consolarsi – almeno in parte – pensando che la qualità dell’informazione non è un problema solo tricolore. E che una cosa del genere – almeno da noi – non potrebbe mai succedere.

In Italia, invitare dei lobbisti a casa di un editore sarebbe impossibile. Anche perchè i lobbisti – da Fiat (che è proprietaria de “La Stampa” e ha un discreto pacchetto di azioni del “Corriere della Sera”), in giù – sono gli editori. E fa una bella differenza.

 

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