Da una parte la (presunta) coda di paglia dei cavalieri senza macchia. E la (presunta) solidarietà pelosa della Casta dei giornalisti. Dall’altra le notizie usate non per informare, ma come arma per atterrare l’avversario in una guerra tra poteri forti. Anzi, tra bande. Comunque la si voglia girare la parabola umana di Dino Boffo – da direttore dell’Avvenire, quotidiano dei vescovi; a protagonista dell’ennesima (presunta) vicenda boccacesca di questa tragicomica estate italiana – è una brutta storia. Tutta italiana. E – come da consolidata tradizione del Belpaese dei misteri – tutta da chiarire.

Passo indietro indispensabile. Tra ieri e oggi – con una tecnica di distrazione di massa consolidata – giornali e tiggì hanno seppelito quer pasticciaccio brutto di Piazza carbonari (dove ha sede appunto il giornale dei vescovi) con la parola “polemica”. Perchè nel nostro Belpaese è così: quando una vicenda è scottante diventa “motivo di polemiche”. Ma le polemiche – cioè gli urlacci e le risse – da che mondo e mondo non aiutano a capire. Solo a far caciara. E allora, appunto: è meglio – per spiegare cosa diavolo è successo anche a chi fosse digiuno di quanto accaduto (ma gli altri questa parte, se la possono saltare) – tornare a ieri. Quando il quotidiano berlusconiano “Il Giornale” ha pubblicato ampi stralci da una nota informativa che accompagnava il rinvio a giudizio – disposto dal giudice per le indagini preliminari di Terni – del direttore di “Avvenire”. Nota informativa che lasciava – per lo meno in apparenza – poco spazio per dubbi e fantasie.

«…Il Boffo – recita uno degli stralci della nota informativa pubblicata da “Il Giornale” – è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione»

Come è andata a finire la querela? Semplice. Un altro stralcio della solita nota pubblicata dal solito “Il Giornale” spiegava che:

«Rinviato a giudizio il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un’ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione»

Per altro:

«Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa che, per questo motivo, aveva ritirato la querela…»

In pratica. Per quel che par di capire: il direttore del giornale dei vescovi sarebbe gay. Avrebbe avuto una relazione con un altro uomo. E avrebbe – telefonicamente e non solo – per giunta molestato la moglie di quell’uomo. Ma tutto questo – la vicenda sentimental-giudiziaria e il patteggiamento – risalirebbero a parecchi anni addietro. Le telefonate sconce e i pedinamenti addirittura al 2001 e al 2002. Il patteggiamento, appunto, al 2004. E qui viene il bello. Perchè un altro giornalista, Mario Adinolfi – che nulla a che fare con “il Giornale” e con Berlusconi; e che invece ha lavorato proprio all’Avvenire – giura che la vicenda era ben nota nelle redazioni di mezza Roma. Ma tutti si erano ben guardati dallo scrivere una riga che fosse una. Fino a ieri, appunto. Quando – tanto per cambiare e con l’unica eccezione de “Il Giornale” – invece dello scandalo, sono esplose le “polemiche”.

Possibile? Beh, per quanto la vicenda a questo punto acquisti le tinte del surreale, la risposta è: parrebbe di sì. Perchè proprio Adinolfi – che oggi milita nel Piddì ed è in forza a Red Tv, televisione satellitare vicina a Massimo D’Alema – nel 2005 (ben prima del’inizio della stagione di papi e pupe; e quindi in tempi non sospetti) sul suo blog aveva scritto nero su bianco che:

Pare che il direttore di un quotidiano cattolico abbia ricevuto un decreto penale di condanna. Ma non oggi, l’anno scorso. Tutti i giornali ne sono a conoscenza, a Roma se ne chiacchiera con gusto giusto da un anno, ma per quello strano patto che fa sì che i direttori di giornali si proteggano tra loro, sui giornali non troverete una riga sull’argomento.

Adinolfi, in quel post del 20 settembre 2005, chiedeva al direttore in questione di farsi avanti e raccontare cos’era successo. Ma niente, silenzio. Per quattro anni. Poi, ieri, sempre Adinolfi è tornato sull’argomento proprio per ribadire che sì quel direttore di quel giornale cattolico era proprio lui, Dino Boffo.

La storia di Dino Boffo, direttore di Avvenire, e dei suoi rapporti omosex sfociati in una condanna per molestie era nota ai giornali da almeno cinque anni e ai lettori di questo blog da tre. Il titolone con cui Il Giornale di Vittorio Feltri, per primo, ha rotto un muro di omertà attorno a questa vicenda chiama in causa ipocrisie e giornalismi all’italiana.

Non solo. Ma oggi Adinolfi ha pure aggiunto un altro particolare non di poco conto. Scrivendo che:

La citazione, poi, dei comportamenti omosessuali di Boffo “attenzionati” dalla polizia inquieta qualcuno, mentre i più sanno che è conseguenza delle frequentazioni del direttore di Avvenire dei luoghi della prostituzione maschile milanese.

Ma Adinolfi è stato uno dei pochissimi giornalisti italiani – ad eccezione va da sè di quelli de “Il Giornale” – a salutare con favore lo stop dell’embargo alla notizia. “La Repubblica”, per mano del vicedirettore Giuseppe D’Avanzo, ha parlato di “aggressione come” nuova strategia berlusconiana (e praticamente non ha minimamente spiegato la disavventura sentimental-giudiziaria di Boffo). “La Stampa”, per voce del direttore Mario Calabresi, ha chiesto di mettere la parola “fine” all’”estate dei veleni” (e tanto per cambiare non ha minimamente spiegato la disavventura sentimental-giudiziaria di Boffo). Il Sole 24 ore, per bocca di Stefano Folli, ha dottamente spiegato che “la strategia (aridanghete) delle ritorsioni non conviene a nessuno (e per non sbagliarsi non ha minimamente spiegato la disavventura sentimental-giudiziaria di Boffo). E perfino l’Antefatto – il blog che fa da anteprima a “Il Fatto”, il nuovo quotidiano targato Travaglio&Padellaro – ha parlato di informazione fatta con i “manganelli” (copyright Luca Telese) e di una strategia (ari-aridanghete) che sarebbe controproducente per il Cavaliere (copyright Travaglio). Ma a dispetto del nome del giornale che verrà, anche qui il fatto – quello con protagonista Boffo, il presunto amante e la moglie del presunto amante – non era minimamente ricostruito. Magari con un intervista proprio a Boffo. Anche perchè – già nel pomeriggio di ieri – il direttore del giornale dei vescovi aveva vergato sull’edizione elettronica di “Avvenire” parole piene di sdegno:

La lettura dei giornali di questa mattina mi ha riservato una sorpresa totale, non tanto rispetto al menù del giorno, quanto riguardo alla mia vita personale. Evidentemente «il Giornale» di Vittorio Feltri sa anche quello che io non so, e per avallarlo non si fa scrupoli di montare una vicenda inverosimile, capziosa, assurda. Diciamo le cose con il loro nome: è un killeraggio giornalistico allo stato puro, sul quale è inutile scomodare parole che abbiano a che fare anche solo lontanamente con la deontologia. Siamo, pesa dirlo, alla barbarie.

Nel confezionare la sua polpettona avvelenata Feltri, tra l’altro, si è guardato bene dal far chiedere il punto di vista del diretto interessato: la risposta avrebbe probabilmente disturbato l’operazione che andava (malamente) allestendo a tavolino al fine di sporcare l’immagine del direttore di un altro giornale e disarcionarlo. Quasi che non possa darsi una vita personale e professionale coerente con i valori annunciati. Sia chiaro che non mi faccio intimidire, per me parlano la mia vita e il mio lavoro(…).

Parole piene di sdegno, dicevamo. Ma che lasciavano – per lettori, elettori e comuni mortali – una lunghissima scia di punti interrogativi. Dino Boffo è davvero omosessuale? Ha davvero avuto una relazione con un uomo sposato? Ha davvero patteggiato quell’ammenda per quelli che lui chiama semplici “fastidi telefonici”? E’ vero, come ha scritto sempre il quotidiano diretto da Vittorio Feltri, che del reato che ha commesso e delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo, «sono indubbiamente a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori»? E se quei pochi stralci della nota informativa  pubblicati da “Il Giornale” non sono stati montati ad arte, ma raccontano la pura e semplice verità, che ci fa Boffo ancora alla guida di un giornale che dell’etica cattolica non fa solo la sua bandiera, ma la sua ragion d’essere?

Tante domande. Nessuna risposta. Perchè cane non mangia cane. E i giornalisti – a quanto pare – non sono abituati a fare domande scomode in generale. E figuriamoci ai colleghi giornalisti. Neppure quelli de “Il Giornale”. Che a Boffo – come ha scritto nero su bianco lo stesso Boffo – non hanno chiesto nulla. Del resto a Vittorio Feltri, neo direttore del foglio berlusconiano, evidentemente interessava solo poter dire che “nessuno, tantomeno al Giornale, si sarebbe occupato di una cosa simile se lui (Boffo, NdA), il Principe dei moralisti, non avesse fatto certe prediche dal foglio Cei (sigla che sta per Conferenza episcopale italiana, NdA) per condannare le presunte dissolutezze del Cavaliere”. Cioè levare a Berlusconi Silvio, fratello del suo editore Berlusconi Paolo, le castagne dal fuoco di escort e Noemi varie. E oggi, nel suo ultimo editoriale, appunto, c’è finalmente riuscito.

Lo avevamo scritto al principio: una storia tutta italiana, insomma. Dove nessuno fa quel che dovrebbe fare. Ma tutti dicono cosa dovrebbero fare gli altri. Ma continuiamo pure così. Finchè dura.

 

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