1. “Cnooc Turns to Ventures in Global Oil Push After Unocal Defeat”, Bloomberg. Comprare, comprare, comprare. La Cina continua a fare shopping di materie prime, nei quattro angoli del mondo. Ultimo colpaccio: sabato scorso, la Cnooc – China national offshore oil company, una delle principali compagnie petrolifere cinesi – ha annunciato di aver raggiunto un accordo con l’argentina Bridas corp. In sostanza: Cnooc pagherà 3,1 miliardi di dollari; e, in cambio, metterà le mani sul 50% di Bridas, che è il secondo produttore di oro nero in Argentina. Per la compagnia petrolifera cinese, si tratta di un evento storico. Nel 2005, sempre Cnooc aveva cercato di sbarcare nel continente americano, facendo un’offerta per comprare Unocal (altra compagnia petrolifera, ma californiana). Un tentativo andato a vuoto, anche e soprattutto per ragioni politiche (secondo il “Wall Street Journal”: gli Usa non vedevano di buon occhio l’ingresso della Cina nel cortile di casa e in un settore per di più strategico). Poi, ad ottobre dell’anno scorso, Cnooc ci aveva riprovato, cercando di comprare alcuni pozzi petroliferi messicani. Ma senza riuscire a perfezionare l’acquisto. Ora, appunto, la svolta. Svolta che significa un ingresso in pompa magna – per i cinesi – nel mercato del greggio americano. Brida, infatti, porta in pancia riserve per ben 318 milioni di barili di petrolio e pozzi in Argentina, Cile e Bolivia. E non è finita qui. Fu Chengyu – che è il presidente di Cnooc – ha annunciato che la sua compagnia è in cerca di altre “opportunità”. Ovvero di altri pozzi petroliferi da comprare. E c’è da credergli. L’anno scorso la Cina – che in barba alla crisi ha visto il suo Pil crescere dell’8,7% – ha speso la cifra record di 32 miliardi di dollari per comprare giacimenti di petrolio, carbone e metalli. Sempre l’anno scorso e sempre la Cina è diventato il primo mercato automobilistico al mondo, scavalcando anche gli Stati Uniti. E, ovviamente, la “benzina” per far andare tutte queste fabbriche e tutte queste auto, bisognerà pur trovarla da qualche parte. Insomma: alla faccia del caso isolato. Lo sbarco della compagnia petrolifera cinese in Sudamerica è davvero un segno dei tempi. E di un mondo che corre. Sempre più verso Est.
  2. “Eni, utile più basso per lo scandalo in Nigeria”, La Repubblica. Stranamente: lo sbarco cinese a Buenos Aires – che tanto spazio ha avuto, per esempio, sul “Financial Times” – non ha fatto granché notizia in Italia. Insomma: niente prime pagine e niente titoloni. E prime pagine e titoloni non sono stati dedicati neppure a un’altra faccenduola di tutto rispetto. Che ha sempre a che fare con il petrolio. E che – per giunta – ha tutta l’aria di un vero e proprio scandalo. Per spiegarla – non me ne voglia il lettore – tocca però fare parecchi passi indietro. Mesi fa – a giugno 2009 – il “Corriere della Sera” aveva raccontato che la Procura di Milano aveva messo nel mirino – niente-po-po-di-meno-che – la prima azienda d’Italia. Ovvero: l’Eni. Secondo il Corriere: i magistrati milanesi avevano aperto un’inchiesta su una delle società del gruppo: la ex Snamprogetti, ora incorporata in Saipem. Pesanti le accuse: Snamprogetti avrebbe pagato tangenti – assieme alle altre società che facevano parte di un consorzio internazionale chiamato Tskj – a politici e burocrati della Nigeria. Tangenti che sarebbero servite per ottenere un appalto – da ben 6 miliardi di dollari – per la costruzione di ben 6 impianti di estrazione e stoccaggio gas, nel delta del fiume Niger. Bene. E quindi? E quindi – come ha scritto “La Repubblica”, giusto venerdì scorso – Eni – per questa storia di mazzette – è sotto inchiesta anche negli Stati Uniti. E sarebbe pronta a pagare ben 250 milioni di euro per “sanare” le presunti tangenti nigeriane e fare pace con la giustizia Usa. Vicenda (quasi) chiusa, quindi? Non proprio. Per lo meno a parere di chi scrive. Come scrisse il Corriere: il giacimento oggetto delle presunte ricche mazzette (182 milioni di dollari) era “da anni al centro del conflitto tra le forze governative e i guerriglieri che si battono contro lo sfruttamento del delta del Niger”. Di qui non una, ma due domande. Primo: come può essere che una società del gruppo Eni – che fa capo al ministero del Tesoro (che ha il 20% delle azioni) – paghi delle stecche ai politici di un altro Paese? E secondo: ma non è che i “guerriglieri” di cui sopra – che i media italiani si sono sempre ostinati a bollare con le parole “ribelli” e “rivoltosi” – non c’avevano e non c’hanno tutti i torti?

Link