DI

LAUREN BOOTH
gilad.co.uk

Una delle tendenze più impressionanti dopo l’attacco della flottiglia è stata la velocità con cui la hasbara [Termine con cui lo stato di Israele descrive gli sforzi esercitati per giustificare la politica del suo governo, ndt] israeliana sia stata smascherata dai giornalisti del web. Gli audioclip manipolati, in cui amatori con finto accento arabo sibilano “Tornatevene ad Aushwitz” agli ufficiali navali israeliani, non ci hanno messo molto ad essere tolti di mezzo, vero? Poi ci sono le affermazioni “talmente patetiche da sembrare comiche” sul fatto che la flottiglia fosse collegata con Al Qaeda. Mi sono sbellicata nel leggere in un giornale israeliano che l’attivista umanitario (nonchè ex marine americano) Ken O’Keefe stava andando a Gaza per “addestrare un’unità di commando di Hamas”. Conosco Ken abbastanza bene. E francamente non sono sicura di chi dovrebbe sentirsi più insultato da tale stupidità, se lui o Hamas. In entrambe i casi, usare i termini “il jihadista Hamas” e “la sicurezza di Israele” non ha più lo stesso effetto scioccante e suggestivo sui giornalisti o sul pubblico in generale.
Oggi la storia mondiale viene modellata da internet, non dal Ministrero degli Esteri israeliano.
Intanto, come una star del calcio sorpresa a tradire la moglie, invece di dire “Ho fatto un gran casino, perdonami”, le fonti del governo israeliano ed altri filibustieri urlano: “Non è giusto gurdarci tutto il tempo, è male!” e “Non sono affari vostri, lascateci in pace!”. Una vera sfortuna che la biancheria sporca dell’IDF [Forze di Difesa Israeliane, ndt] sia stata mandata in onda per quello che è, via facebook e twitter. I singhiozzi sionisti del “non è giustooo!” suonano ancora più bizzarri. Ma parleremo più avanti dei “robot” di Israele.
Dopo il massacro, l’Intelligence israeliana (ci dev’essere un errore) è stata alquanto occupata a cancellare le memory card e gli hard disk di quelle che una mia ricerca preliminare ha stimato fossero circa 800 videocamere, 1200 cellulari e 600 computer. Tutto saccheggiato ai passeggeri della Freedom Flotilla, mentre venivano fatti inginocchiare, ammanettati e messi in posizioni forzate, sul caldo ponte della Mavi Marmara per tutte le 12 ore seguenti l’attacco. Prima che i robots gridassero “Perchè c’è tanto denaro a bordo? Perchè così tante fotocamereee?”. Lasciate che vi spieghi: le brave persone a bordo avevano raccolto soldi per mesi nelle comunità locali di tutto il mondo per portare beni utili alle persone, le scuole ed i bambini sotto assedio nella striscia di Gaza. Inoltre, le fotocamere erano le uniche “armi” che quelli a bordo avevano per difendersi nel caso di un attacco in mare.
Ora, l’evidenza sta venendo a galla: forzata (dalla linea dura della diplomazia turca) a rilasciare tutti i passeggeri rapiti più presto di quanto avrebbe voluto, Israele (come al solito) si sta vendicando sulle famiglie palestinesi degli attivisti che erano a bordo. I cari di coloro che cercano di opporsi senza violenza alle politiche sioniste di violento Apartheid vengono interrogati, mentre state leggendo, dallo Shabak [Servizio di sicurezza generale israeliano, ndt] per aver semplicemente viaggiato con la Freedom Flotilla. Non mi permetto di dire altro per paura di ulteriori rappresaglie su gente innocente. Ma poichè ormai dovreste rendervene conto, la macchina israeliana è specializzata nella punizione collettiva. Questa settimana un portavoce americano ha dichiarato dal vivo che “I bambini di Gaza erano sotto assedio perchè i loro genitori hanno votato Hamas”. Ci sarebbe troppo da dire su questo, quindi vi lascio libera interpretazione.
La notte scorsa a Londra, come in molte altre città, i passeggeri della Freedom Flotilla hanno affrontato un gremito meeting pubblico presso la Conway Hall nel centro della città, dove sono apparsi in turni scaglionati, temprati dalla loro esperienza di undici giorni fa (di già? Come passa il tempo!).
Jamal El Shayyal è il reporter di Al Jazeera che ha continuato a trasmettere mentre gli spari fischiavano dietro di lui sul ponte superiore della Mavi Marmara. Sinceramente, pensavo di avere già sentito, letto e visto il peggio sull’attacco israeliano ai passeggeri della flotta. Ma non avevo visto niente. E credetemi, neanche voi. Quei tre minuti di video, miracolosamente trasmessi dal vivo o contrabbandati sottobanco, mostrano il più mero accenno degli orrori a cui questa gente coraggiosa ha assistito. Ed ha sofferto.
El Shayyal ha raccontanto ad un pubblico ammutolito che “era stato invitato dall’IHH [“Fondazione Dei Diritti Umani, Le Libertà E Gli Aiuti Umanitari”, una ONG turca, ndt] a filmare ogni centrimetro della nave”. E così ha fatto. Dalle viscere dello scafo fino ai ponti più alti.
“Ho controllato e filmato” ha detto “non c’era un’arma a bordo. Non una pistola. Niente artiglieria. La cose più letali su quella nave erano frutta e verdura”.
Quando l’attacco del commandos israeliano è iniziato Jamal indossava il pigiama sotto un giubetto di salvataggio come molti degli altri cosiddetti “terroristi preparati a bordo”. Gli elicotteri hanno quasi provocato un uragano sui ponti, tutti i telefoni satellitari sono andati in tilt (per bloccare deliberatamente gli SOS al resto del mondo) e, così sperava l’IDF, ogni rapporto di fatto su ciò che stava per accadere.
A questo punto, poco dopo le quattro e trenta del mattino, Jamal ha visto un passeggero turco coplito alla testa. Parlava piano e chiaramente per essere sicuro che fosse capito da tutti.
“In quel momento non c’erano [ancora] soldati sulla nave.”
Presto un altro passeggero ha preso una maglia bianca dalla borsa e l’ha usata come una bandiera di resa. Quando gli spari hanno fischiato, molti sono morti. Era chiaro che le richieste di pietà venivano ignorate. E che era in atto un’azione omicida.
Un membro israeliano del Knesset e Lubna (un attivista che parla anche ebraico) ha preso la parola facendo degli annunci all’altoparlante in inglese e poi in ebraico. Annunci ripetuti almeno 8 volte.
“Abbiamo della gente gravemente ferita qui, per favore venite a prenderli. NON siamo armati. CI ARRENDIAMO!”
Presto la trasmissione dell’altoparlante è stata tagliata.
Sarah Colborne del PSC [Palestine Solidarity Campaign, ndr] ed altri passeggeri hanno negoziato con i soldati l’evacuazione di almeno alcuni dei tanti feriti. Molti non volevano andare con gli israeliani per paura di sentirsi meno al sicuro ad essere “trattati” dalle truppe, piuttosto che essere operati sotto i ponti della nave senza anestetico.
“Era stata richiesta agli israeliani una barella” ha continuato Jamal “per un uomo con diverse emorragie interne che doveva essere spostato. Ci hanno detto di usare un sacco a pelo”. L’uomo è stato spostato in agonia su un lenzuolo peggiorando le sue ferite. Ed il suo immenso dolore. È sopravvissuto? Non lo sapremo mai.
Poiché la sparatoria ha spianato la strada all’imprigionamento forzato dei passeggeri, o, chiamandolo col suo nome – al sequestro, Jamal è stato spinto a terra, ammanettato e picchiato. I suoi effetti personali prelevati. Era ormai mattina, in un chiaro, soleggiato giorno d’estate. Centinaia di uomini sotto shock erano tenuti sul ponte, con le mani legate dietro la schiena. Tre e poi quattro ore sono passate. C’erano richieste per andare in bagno. Non è stata data acqua, sono stati presi a calci e pugni dai soldati che passavano ogni pochi minuti. Alla fine Jamal ha convinto uno di loro a farlo andare in bagno, “con le mani ancora legate dietro la schiena”. Un uomo sull’ottantina che cercava di tornare dalla sua famiglia a Gaza, è stato preso in giro dai soldati, nel suo disagio. Dopo tante ore, ha sofferto l’umiliazione di farsela sotto, di fronte ad angeli e demoni.
Ad un certo punto Jamal è stato portato al piano inferiore. L’area era stata saccheggiata a fondo.
“Non c’è stato rispetto dei diritti umani o della dignità. I libri sarci di qualsiasi credo sono stati gettati al vento, gli effetti personali sparsi ovunque”.
Si ricorda di un tranquillo fratello musulmano che diverse volte aveva chiesto ai soldati se fosse possibile allentare leggermente le sue manette. Alla terza richiesta, uno di loro le ha strette così tanto che “ha urlato di dolore al punto da farci venire la nausea”.
Nel pomeriggio la nave è stata fatta approdare nel porto di Ashdod. Spinto a riva da guardie armate, Jamal è stato salutato così: “Benvenuto in Israele. Si sta divertendo qui?”
Il giornalista di Al Jazeera voleva farci capire qualcosa in modo molto chiaro. I passeggeri civili non erano “detenuti” né “arrestati”. Erano pienamente, in ogni accezione legale della parola, “rapiti”.
Nella prigione di Beersheva, è stato messo in una cella, con uno dei capi del gruppo turco per i diritti unmani, l’IHH. Non hanno mangiato nulla per 24 ore, solo alcuni sorsi d’acqua. Non sapevano affatto se il mondo sapesse dove si trovassero – o cosa fosse successo. Altrove nella prigione, si potevano sentire gridare contro i rapitori israeliani alcuni rappresentanti consolari dalla Gercia, la Francia, la Spagna e la Macedonia che chiedevano il rilascio dei loro connazionali. Urlando per i diritti umani violati, per il cibo, per l’acqua, per l’accesso alla rappresentanza legale.
Dal consolato inglese. Niente.
Alla fine quando ogni altro console aveva visitato i civili rapiti, si presenta un rappresentatne inglese. Jamal ha descritto la natura ossequiosa della visita con parole umilianti. Con vari salamelecchi agli israeliani, il diplomatico inglese non ha nemmeno insistito sul diritto di vedere le vittime in privato. Un imperativo legale per i tutti i detenuti durante una visita del genere. Non ha richiesto acqua, cibo, o un termine di rilascio per coloro che in teoria stava rappresentando. Sotto lo sguardo dei soldati israeliani, ha fatto solo due domande: “come si chiama e qual è il suo numero di telefono in Inghilterra”. Poi i nostri cittadini sono stati abbandonati ad interrogarsi sul loro destino e su quello dei loro compagni, affamati, impauriti, scioccati, soli.
Quando gli israeliani hanno realizzato che i giochi erano finiti, e che il mondo aveva sicuramente visto i video del loro attacco omicida, hanno dato l’opportunità ai detenuti turchi di lasciare la prigione alla svelta, in un’ora.
Se ne sono andati? No. Di punto in bianco hanno rifutato di andarsene “prima che ogni altra nazionalità non fosse liberata”. Gli rendiamo onore.
Jamal, Osama, Alexandra, Sarah, Kevin e altre 400 persone da tutto il mondo sono state rilasciate SOLO grazie al sostegno dei turchi. E non per un intervento della comunità internazionale. Non per un’azione dell’ONU o (Dio non voglia) del governo inglese. Ma grazie al governo turco.
In tutto il suo tempo da prigioniero, poco più di 40 ore, Jamal, come tutti gli altri inglesi, non ha ricevuto né visite legali, né telefonate, né una giusta rappresentanza inglese.
Finalmente all’aeroporto di Ben Gurion, deportato da un luogo in cui non sarebbe mai voluto entrare, a Jamal è stato consegnato un pezzo di carta con una sua foto e delle scritte in ebraico.
Il suo interrogatore lo ha condotto all’aereo sogghignando. “Compliementi” ha detto “questo è il suo nuovo passaporto”.
“Voglio il mio vecchio passaporto!” ha risposto Jamal.
“Mi faccia causa!” è stata la risposta.
C’è altro dai sopravvissuti che è stato filmato e lo diffonderò non appena sarà on line. Ma ora torniamo agli Zio-bots [“robots sionisti”, ndt]. Accanto alle telecamere della Press TV e dello staff del PSC che filmavano i testimoni, c’era l’immancabile ed imbronciata sionista che riprendeva l’evento per alcune organizzazioni opposte alla giustizia ed al libero dialogo. Curiosamente, mentre i sopravvissuti descrivevano il loro orrore in dettaglio, la telecamere di questa donna NON era rivolta a loro, ma ai miei colleghi della Press TV.
Sono uscita per fumare una sigaretta ed eccola di nuovo. Immediatamente riconoscibile come una proto sionista con la bocca cucita. Mi ha chiesto se stavo con la Press TV e se volevo paralre con lei per la Tv israeliana. Ovviamente non proveniva da nessuna emittente – dato che nessun canale che si rispetti accetterebbe un tremolante video da amatori del tipo che lei stava facendo. Curiosa delle sue vere intenzioni, ho risposto “con piacere”.
“Crede che la Press TV abbai fatto abbastanza per dare la versione dei fatti israeliana riguardo la flottiglia?”
Mi sono fermata? Sentivo di doverlo fare, semplicemente per avere il tempo di realizzare che questa donna, dopo un’ora di straziante testimonianza del massacro, non aveva ascoltato né provato – niente.
“La BBC ha dato a Mark Regev spazio sufficiente per la vostra cusa, non crede…”, ho risposto.
“Si ma non crede che la Press TV dovrebbe…” e poi è successo. La rabbia bianca. Ho sentito i bambini di Gaza piangere, ho visto sparare a pescatori sulla costa, bombardare col fosforo le scuole e i negozi di alimentari dell’UNWRA [“United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East”, Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso dei Rifugiati Palestinesi, ndt]. Ho visto il massacro della flotta della Freedom Flotilla, la tortura, l’inutile ed evitabile morte.
“Vai a farti fottere” mi sono sentita dire. E per essere certa di non essere poi citata erroneamente ho aggiunto:
“Fottiti e basta”.

Titolo originale: "Shocking Testimonials from the Mavi Marmara survivors. And one Israeli fembot by Lauren Booth"
Fonte: http://www.gilad.co.uk
Link

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ROBERTA PAPALEO