DI

MARINO BADIALE E FABRIZIO TRINGALI
megachip.info

 

1. Introduzione

Il tema dell’Europa diventerà uno dei punti cruciali della discussione politica in Italia nei prossimi mesi, perché le nuove regole europee in tema di finanza pubblica hanno conseguenze durissime per l’Italia. La discussione sul “che fare” di fronte a tali norme diventerà estremamente accesa quando il governo italiano comincerà ad agire secondo il loro dettato. Chi voglia combattere il degrado che attanaglia il nostro paese, e opporsi alla rovina cui ci porta l’attuale organizzazione economica e sociale, deve aver ben chiaro lo scenario che ci troveremo di fronte nel breve e medio periodo.

L’analisi che qui proponiamo inizia illustrando la recente riforma che il Consiglio europeo ha varato lo scorso 24-25 marzo. Gli accordi introducono nuove regole di governo delle finanze pubbliche dei paesi dell’Eurozona, con lo scopo di garantire la stabilità dell’Euro e di far ripartire la crescita del PIL nell’area Euro.

L’articolo è diviso in tre parti: nelle prima descriveremo i fatti, cioè spiegheremo le principali caratteristiche di questa riforma epocale, e le motivazioni che hanno spinto l’Europa a prendere tali decisioni.

Nella seconda ci soffermeremo sulle gravissime conseguenze sociali e politiche che i nuovi accordi comporteranno per il nostro Paese.

Nella terza discuteremo le possibili risposte politiche alla situazione descritta. In particolare affronteremo il tema di una possibile Europa diversa dalla attuale, cioè delle caratteristiche dell’Unione Europea di cui avremmo bisogno, che sono diametralmente opposte a quelle dell’attuale UE. Dopo aver discusso e criticato alcune proposte possibili, tireremo le logiche conclusione della nostra analisi, che anticipiamo qui: è necessario difendere il popolo italiano dall’attuale Unione Europea, promuovendo al più presto l’uscita del nostro Paese dall’Euro.

2. I fatti.

Il problema che le nuove regole europee si propongono di affrontare è quello del debito pubblico di alcuni paesi europei, i famigerati “PIIGS” (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). E’ noto che la crisi economica, iniziata nel 2007 negli USA e dilatatasi poi al mondo intero nel 2008, si è trasformata per questi paesi in possibilità di “crisi del debito sovrano”, cioè in una possibile incapacità di onorare il loro debito pubblico. I meccanismi di questo passaggio sono diversi nei vari paesi, perché diverse sono le situazioni di partenza e le loro storie rispettive. Si può comunque genericamente affermare che la causa prossima dei problemi è rappresentata in primo luogo dalla trasformazione dei debiti privati in debiti pubblici, tramite le diverse forme di aiuto al settore finanziario adottate dai diversi paesi, e in secondo luogo dalla crisi dell’economia reale, con drastica riduzione del PIL e con la necessità di spese anticicliche. Questa situazione ha generato una dinamica negativa del rapporto debito/PIL (in questa fase il parametro fondamentale) che si teme possa sfuggire al controllo. In questa realtà agiscono i timori degli investitori, che chiedono interessi sempre più alti per sottoscrivere le nuove emissioni di titoli di Stato dei paesi in difficoltà, uniti a manovre speculative che accentuano le difficoltà. Il risultato è che il debito continua a crescere, fino al rischio di insolvibilità.

Pertanto l’Unione Europea ha deciso di intervenire, promuovendo negoziati finalizzati alla stesura di un nuovo patto di stabilità e crescita.

I negoziati hanno portato alla riforma della governance europea, approvata il 24-25 marzo 2011. Ecco alcune delle novità principali:

A. Gli accordi stabiliscono obiettivi molto chiari, che i paesi membri sono tenuti a rispettare:

– pareggio di bilancio entro 5 anni

– riduzione del debito per un importo annuale pari ad un ventesimo della cifra eccedente il rapporto del 60 per cento fra debito e PIL

Il mancato rispetto di questi parametri darà luogo a sanzioni.

B. I Paesi in difficoltà potranno accedere a prestiti in base all’ European Stability Mechanism[2].

C. Viene introdotto l’”Euro Plus Pact”. Si tratta di un patto per la competitività di stampo fortemente liberista, che impone agli stati membri di rivedere diversi aspetti della legislazione nazionale, prevalentemente nel campo del lavoro. Flessibilità, contenimento dei salari e della spesa pensionistica sono i capisaldi di questo pacchetto.

D. Viene varato il “Six Pack”: si tratta di sei proposte di legge, di cui gli stati membri hanno già avviato l’iter legislativo. Contengono diverse norme, prevalentemente finalizzate ad aumentare le sanzioni in caso di sforamento dei parametri di stabilità, e a rendere automatica la loro applicazione, attraverso il reverse mechanism (la Commissione Europea attiva automaticamente le sanzioni, a meno che il Consiglio non si pronunci diversamente).

E. Viene confermato il cosiddetto “Semestre Europeo”, varato nel 2010. Si tratta di una procedura di sorveglianza multilaterale dei bilanci nazionali, affidata ad una task-force presieduta dal presidente del Consiglio europeo. Lo scopo è rafforzare il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri. Le raccomandazioni emesse devono essere recepite dagli stati membri. Prevalentemente si tratta di spinte alla liberalizzazione/privatizzazione, alla riforma del lavoro e al ridimensionamento della spesa per la previdenza sociale.

L’avvio del primo Semestre europeo quest’anno è stato segnato dalla ‘Annual Growth Survey’ della Commissione, pubblicata a gennaio, che ha messo in luce 10 azioni che l’Ue dovrà intraprendere nel 2011/2012. Tra di esse è prevista la riforma dei sistemi pensionistici[3].

L’insieme di queste norme garantisce agli organismi di Bruxelles una forte capacità di orientamento delle politiche economiche degli Stati nazionali, ai quali resta un margine di manovra molto ristretto.

Occorre inoltre notare che, accanto a queste misure già varate, si stanno elaborando misure ulteriori che toglierebbero agli Stati ogni residua forma di sovranità sull’economia. Il Presidente della BCE Trichet ha recentemente proposto che le autorità dell’Eurozona possano avere “il diritto di veto su alcune decisioni di politica economica a livello nazionale”[4]. In particolare, secondo Trichet, Bruxelles dovrebbe poter bloccare qualsiasi decisione di uno Stato che riguardi “le principali voci di spesa del bilancio e gli elementi essenziali per la competitività del Paese”.

Per avere un quadro completo della situazione, occorre però chiedersi quali siano le reali motivazioni che hanno spinto l’Europa a prendere queste decisioni. Per dare una risposta serve sapere chi è che detiene la maggior parte del debito pubblico dei paesi PIIGS, e cosa comporterebbe l’eventuale insolvenza (default) di uno Stato membro dell’Euro.

La maggioranza del debito italiano è in mano a banche e governi esteri: in base ai dati raccolti dal New York Times, la Francia ne possiede oltre un terzo. Importanti quote sono in mano anche a Germania e Gran Bretagna[5].

La situazione della Grecia è simile: buona parte del suo debito è in mano a stranieri, fra i quali la regione Lombardia e la stessa BCE, che possiede un portafoglio di titoli greci per un valore nominale di circa 50 miliardi di euro. Ovviamente i creditori esteri hanno interesse ad evitare il default di uno Stato di cui detengono grosse quantità di titoli, per evitare le perdite relative alla conseguente ristrutturazione del debito. Dunque sia la BCE, che gli stati creditori, hanno interesse a garantire la solvibilità dei paesi a rischio default. Al massimo potrebbero accettare una “ristrutturazione soft” del debito, come ambienti tedeschi sembrano suggerire per quanto riguarda la Grecia. Il principale scopo delle nuove regole europee, e delle politiche draconiane che queste imporranno al nostro Paese (e agli altri PIIGS), è semplicemente quello di proteggere gli investimenti degli stati economicamente più forti, e della stessa BCE.

3. Le conseguenze.

Quali effetti produrranno per il nostro Paese i vincoli della nuova governance europea?

Il già citato quaderno di approfondimento dell’ISPI[6] ci ricorda che il nuovo patto di stabilità e crescita obbliga gli Stati ad azzerare il deficit di bilancio in cinque anni e a ridurre il rapporto debito/PIL seguendo un programma stringente. “Per l’Italia, che ha un rapporto debito/PIL eccedente il 110%, questo implica una riduzione compresa fra due e tre punti percentuali di tale rapporto, almeno per i primi anni (…). Si tratta di un aggiustamento importante, pari in valore assoluto ad oltre 40 miliardi di euro l’anno”[7]. Tale importo potrebbe diminuire in presenza di una crescita significativa del PIL, mentre “minore sarà la crescita del PIL, maggiore sarà l’onere a carico della finanza pubblica, onere che potrebbe velocemente diventare insostenibile nell’ipotesi di un tasso di crescita non superiore all’1% annuo”[8].

Poche righe più avanti il quaderno ISPI citato smorza qualsiasi ottimismo, rilevando quanto sia poco credibile una previsione di crescita per l’Italia superiore all’1,5% annuo.

Dello stesso avviso è la Corte dei Conti, che nel rapporto 2011 sottolinea come, dopo la grande recessione del biennio 2008-2009, dal 2010 gli andamenti del PIL mostrano una tendenza al modesto aumento (+1.3%). Tuttavia “La fine della recessione economica non comporta il ritorno ad una gestione ordinaria del bilancio pubblico, richiedendosi piuttosto sforzi anche maggiori di quelli finora accettati. Tanto più che va tenuto conto delle implicazioni dell’inasprimento dei vincoli europei, ed in particolare della nuova regola, assistita da apposita sanzione di tipo praticamente automatico, secondo la quale i paesi che registrano un rapporto fra debito pubblico e prodotto superiore al 60% dovranno ridurre lo scarto fra il dato effettivo e questo valore-soglia di un ventesimo all’anno (del 3% all’anno, pari, oggi, a circa 46 miliardi nel caso dell’Italia)"[9].

La Corte prosegue la sua analisi descrivendo uno scenario inquietante: “Le simulazioni presentate nel Rapporto segnalano, a tal riguardo, come, con l’ipotizzata continuazione di tassi di crescita molto modesti, il rispetto dei nuovi vincoli europei richieda un aggiustamento di dimensioni paragonabili a quello realizzato nella prima parte degli anni novanta, per l’ingresso nella moneta unica. A differenza di allora, però, gli elevati valori di saldo primario andrebbero conservati nel lungo periodo, rendendo permanente l’aggiustamento sui livelli della spesa”.

Dunque le misure che si renderanno necessarie per il rispetto dei parametri europei possono essere paragonate a quelle che furono adottate per ottenere l’ingresso nell’Euro. Ma con una importantissima differenza: la fase di aggiustamento dei conti pubblici precedente all’ingresso nella moneta unica fu relativamente breve, temporalmente circoscritta. La fase nella quale stiamo per entrare, invece, si protrarrà per un tempo indefinito, sicuramente molto lungo.

Da questa dilatazione del periodo di difficoltà, emerge un problema cruciale, che molti studiosi mettono in rilievo: manovre di queste dimensioni, protratte per anni, avranno un profondo effetto depressivo. Andranno cioè a incidere negativamente sulla crescita del PIL, che già si prevede stentata. Se succederà questo, allora gli obiettivi fissati (che, ricordiamolo, riguardano il rapporto debito/PIL) potrebbero essere molto più lenti da raggiungere del previsto, o addirittura rivelarsi non raggiungibili: se diminuisce il debito ma contemporaneamente diminuisce anche il PIL, il rapporto fra i due può benissimo restare costante o anche aumentare. Sembra sia questo lo scenario che si profila per la Grecia: manovre durissime che abbattono il debito ma anche l’economia, cosicché il rapporto debito/PIL non diminuisce. Questo rende necessarie altre manovre, che a loro volta abbattono ulteriormente il PIL, e così via, in una spirale depressiva dalla quale non si vede via d’uscita[10].

E’ dunque probabile che le manovre di riduzione della spesa pubblica che l’UE intende imporci non avranno gli effetti previsti in termini di riduzione del rapporto debito/PIL.

Come se non bastasse le UE continuerà a spingere perché gli Stati assumano politiche di stampo iperliberista. E nel prossimo futuro potrà sostanzialmente imporle, tramite gli strumenti introdotti dalle nuove regole. Scorrendo diversi documenti prodotti da vari organismi dell’Unione, emerge che alcuni dei provvedimenti ritenuti necessari per il rilancio della crescita sono i seguenti:

A. Ancorare i salari alla produttività aziendale, cancellando o ridimensionando il peso dei contratti nazionali di lavoro.

B. Riformare ulteriormente le pensioni (aumentando l’età pensionabile e diminuendo ulteriormente il rapporto tra contributi versati e valore della pensione percepita).

C. Realizzare privatizzazioni.

Ricordiamo che in base all’ European Stability Mechanism, in caso di rischio default l’eventuale prestito di salvataggio sarà vincolato ad un pacchetto di riforme decise dai tecnocrati europei.

Lo scenario che ci aspetta è quello di una progressiva perdita di sovranità nazionale a favore della UE, finalizzata all’implementazione delle fallimentari politiche liberiste da essa imposte.

E’ facile prevedere gli effetti sociali di tutto questo. Si tratta di misure che costringeranno a tagliare drasticamente la spesa destinata alla salute, alla scuola, ai servizi sociali. Gli enti locali subiranno ridimensionamenti ai bilanci ben maggiori di quelli già realizzati, trovandosi costretti a tagli draconiani ai servizi pubblici, con fortissime ricadute negative per le condizioni di vita di tutti noi. La scuola e l’Università subiranno ulteriori tagli, a partire da una situazione come quella attuale, nella quale esse sono già sostanzialmente al limite della sopravvivenza. L’attacco ai diritti dei lavoratori continuerà, secondo la linea scelta in Italia da Marchionne. Il lavoro sarà sempre più precario. La depressione economica rafforzerà il drammatico problema della disoccupazione, mentre le famiglie avranno sempre maggiori difficoltà a fungere, come hanno fatto finora, da sostituti del Welfare State.

La conseguenza sarà la cancellazione di ogni residua forma di Stato sociale, un ulteriore e drammatico aumento della disoccupazione e del lavoro senza diritti, la drastica diminuzione delle condizioni di vita di larghissimi strati della popolazione.

Una delle conseguenze dell’impoverimento materiale e culturale che ne risulterà, sarà che l’Italia non sarà più in grado di competere sui segmenti del mercato ad alta specializzazione.

Quale potrà essere il ruolo del nostro paese, di questa Italia impoverita e depressa, all’interno dell’Europa? Sarà probabilmente quello di fornire una riserva di forza lavoro dequalificata e sottopagata; di fungere da discarica per i rifiuti della parte più forte dell’Europa, e da fornitrice di servizi finanziari occulti tramite le nostre mafie.

Quello che stiamo delineando è lo scenario di una profonda involuzione che renderà il nostro paese in sostanza un paese del Terzo Mondo[11].

4. Reazioni possibili.

Dopo aver descritto la situazione e i suoi esiti più probabili, è naturale sollevare la questione del “che fare”. Come opporsi al degrado e alla decadenza che si prospetta per l’Italia? Se si assume di continuare a rimanere nella moneta unica, vi sono due possibilità: in primo luogo, impegnarsi per impostare una battaglia politica a livello europeo finalizzata a cambiare le direttive di politica economica dell’UE, in secondo luogo ottemperare a ciò che ci viene imposto cercando però di adottare misure di segno sociale opposto a quello che è probabile aspettarsi, per esempio aumentando le imposte che gravano sui ceti abbienti o recuperando risorse con la lotta all’evasione fiscale e all’economia sommersa. Discutiamo allora queste due possibilità.

4.1. La lotta per “un’altra Europa”. L’idea di lottare per una “Europa diversa”, un “Europa dei popoli” contrapposta all’attuale “Europa della banche”, rappresenta come è noto uno slogan molto diffuso nella sinistra dei vari paesi europei. Ma nonostante esso abbia rappresentato il riferimento generale di molti movimenti e partiti, fin dalla nascita dell’UE, in tutti questi anni non è stato fatto nessun passo significativo non solo nella costruzione della fantomatica “altra Europa”, ma neppure nella costruzione di un serio movimento dei popoli europei di opposizione all’Europa attuale. Crediamo che sia tempo di chiedersi i motivi di questa assenza. Chi sostiene la possibilità di restare nell’UE per impostare una battaglia di cambiamento, ha il dovere di indicare quale sia il soggetto sociale di riferimento per tale battaglia. Chi dovrebbe lottare per “un’altra Europa”? La risposta ovvia dovrebbe essere “i ceti subalterni dei vari paesi europei” (a seconda delle preferenze ideologiche, al posto dei “ceti subalterni” si possono ovviamente mettere “la masse popolari”, “i ceti dominati”, “il proletariato”, e così via). La questione fondamentale diventa allora la seguente: i ceti subalterni dei vari paesi europei hanno la capacità politica, l’unità culturale, la solidarietà ideale necessarie per una simile lotta comune a livello europeo? L’esperienza di quasi vent’anni di UE ci dice che la risposta è NO. La questione fondamentale è appunto che non esiste un popolo europeo, esistono tanti popoli europei divisi fra loro prima di tutto dalla lingua e poi da culture e modi di vita. L’incapacità di una azione comune dei popoli europei appare in tutta la sua evidenza in relazione alla vicenda dell’attuale crisi economica greca. Non si vede nessuna forma di solidarietà popolare europea con il popolo greco, sottoposto in questi mesi ad un micidiale attacco che ne insidia i diritti e le condizioni di vita. Una reazione popolare europea sarebbe ovvia, se i popoli europei fossero uniti da due legami fondamentali: in primo luogo un legame emotivo di solidarietà umana, in secondo luogo il senso di un interesse e di un destino comuni. Sono questi i due elementi che fanno di un insieme generico di persone un collettivo (“massa”, “popolo”, “classe”) capace di un’azione politica comune. La crisi greca mostra con chiarezza come questi due elementi manchino totalmente ai popoli europei. Non c’è nessun moto spontaneo di solidarietà con il popolo greco. Nessun segnale di vicinanza al movimento popolare che in Grecia cerca di opporsi alle scelte imposte dalla UE e dal Fondo Monetario Internazionale, e che ha già prodotto diversi scioperi generali molto partecipati. Ciò significa che nessuno sente i greci come i propri simili e fratelli, nessuno percepisce una forma di empatia nei loro confronti. Sembra piuttosto prevalere l’indifferenza o addirittura la riprovazione per le “cicale greche” che hanno finora “vissuto al di sopra dei loro mezzi”. Ma ciò che più colpisce è che, se manca l’elemento di “solidarietà empatica”, manca addirittura quello della considerazione dei propri interessi. Sappiamo che la crisi greca è solo il primo effetto dell’attacco complessivo ai ceti popolari di molti paesi europei (appunto i famosi PIIGS, ma non solo). La solidarietà nella lotta dovrebbe scattare, se non per empatia, almeno per freddo calcolo di opportunità: sarebbe infatti nell’interesse di tutti i popoli minacciati bloccare l’aggressione nella sua fase attuale, prima che inizi ad attaccare direttamente gli altri popoli. Il fatto che questo non succeda è la prova dell’incapacità di azione politica comune dei popoli europei in questa fase storica.

Chi auspica un movimento europeo che cambi il volto della UE non ha dunque un referente sociale per l’azione politica che chiede. O almeno, se ce l’ha, non è quello più ovvio, appunto i ceti subalterni dei vari paesi europei. Si potrebbe infatti pensare che un referente sociale dopotutto vi sia. Vi è infatti nella realtà europea uno strato sociale capace di azione politica e culturale a livello europeo: si tratta delle élites, dei ceti dirigenti. Per essi infatti non valgono le linee di divisione che impediscono ai popoli europei di essere un popolo: le élites hanno una lingua comune (l’inglese internazionale), stili di vita simili (dominati dai viaggi e dallo scarso radicamento in un singolo paese), ideologie comuni (l’accettazione del capitalismo come unica realtà pensabile, che può essere poi declinato in versioni più “di sinistra” o più “di destra”). Sono quindi le élites, e solo esse, che in questa fase sono capaci di un’azione comune a livello europeo. E’ a queste élites che ci rivolgiamo, nei fatti, se proponiamo di riformare la UE. E allora si capisce bene il fallimento di quindici anni di slogan su “un’altra Europa”: questa Europa è esattamente quella voluta dalle élites, rivolgersi a loro per chiedere un cambiamento significa parlare a vuoto.

4.2. Risorse per pagare il debito. Un’altra possibile linea di azione potrebbe essere quella di ottemperare alle richieste che derivano dalle nuove regole europee in primo luogo scaricandone il peso sui ceti privilegiati, realizzando quindi quella giustizia fiscale che da molto tempo manca in Italia, e in secondo luogo colpendo l’evasione fiscale, le ricchezze della criminalità, gli sprechi e la corruzione che fanno sperperare denaro pubblico.

Si tratta di una proposta che ha una sua ragionevolezza. Certamente qualche decisione indirizzata ad una maggiore equità fiscale potrebbe essere presa. Per esempio è possibile che alcuni Paesi come l’Italia, che ancora non hanno una tassa sui grandi patrimoni, la introducano.

Altresì è possibile un recupero di risorse dall’evasione-elusione fiscale e dall’economia sommersa, fenomeni che nel nostro Paese riguardano circa il 15% della ricchezza prodotta, e causano un mancato gettito molto elevato, stimato intorno al 7% del PIL, pari a circa 100 miliardi di Euro[12]. Altri significativi risparmi si potrebbero ottenere tagliando drasticamente le spese militari.

Le prime osservazioni critiche su questa proposta sono le seguenti: ci si può chiedere se tali risorse sarebbero sufficienti ad ottemperare alle richieste europee, e occorrerebbe una discussione approfondita e l’intervento di studiosi competenti per approfondire la questione. Si può in secondo luogo osservare che né la UE, né le altre istituzioni internazionali sono particolarmente interessate a misure di questo tipo[13].

Ma l’obiezione principale che intendiamo svolgere a questa tesi è di un altro tipo. In primo luogo dobbiamo riprendere il tema dell’origine delle difficoltà attuali. E’ vero infatti, come dicevamo all’inizio, che la causa prossima è la crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008. Ma esistono cause più lontane. L’Italia mostra da tempo un andamento negativo di alcuni fondamentali indicatori economici, in particolare la crescita del PIL e quella della produttività[14]. Ciò significa in sostanza che l’Italia è poco competitiva nella lotta internazionale per i mercati. Ora, in questa situazione la creazione di un mercato unico per merci e capitali e la creazione di una moneta unica sono evidentemente mosse che danneggiano il nostro paese. La libera circolazione delle merci fa perdere alle nostre produzioni il mercato interno, l’aggancio alla moneta unica rende impossibile ricorrere alla svalutazione per recuperare competitività. Essere agganciati alla stessa moneta di economie tanto più forti e competitive, come quella tedesca, è un evidente svantaggio. La moneta che va bene alla Germania non può andare bene a paesi come l’Italia, la Grecia o il Portogallo[15]. La competitività dell’industria tedesca toglie spazio alle industrie dei paesi deboli, che, costretti dall’euro, non possono ricorrere alla svalutazione[16]. Si creano così squilibri che possono venire coperti per un certo tempo, soprattutto in presenza di una situazione economica internazionale positiva, ma che diventano esplosivi al sopraggiungere di una crisi. Come spiega bene lo studioso Vladimiro Giacché in una intervista[17], la crisi di paesi come Italia, Grecia e Portogallo, “è infatti una cronica crisi di solvibilità, perché hanno un deficit strutturale nei confronti dell’estero, una bilancia commerciale pesantemente negativa. Detto in parole povere, consumano da anni più di quanto producono. Un deficit che per di più, invece di ridursi, aumenta. Quando succede questo, è inevitabile che una o più categorie di agenti economici (…) accumuli debiti: si può trattare del settore privato (famiglie e imprese) o si può trattare del settore pubblico, o anche di entrambi”. Il deficit strutturale nella bilancia commerciale di cui parla Giacché è appunto legato al fatto che in presenza di una stessa moneta, le aree più forti inevitabilmente sottraggono mercati, anche interni, alle aree più deboli[18].

Ci sembrano chiare le conseguenze di tutto questo: se si vuole rimanere nell’UE non basta mobilitare tutte le risorse possibili per abbattere debito e deficit, occorre sopratutto un radicale rinnovamento della struttura produttiva del paese, dei rapporti di lavoro, delle realtà istituzionali, per rendere l’Italia competitiva rispetto alla Germania (e agli altri paesi del nordeuropa). Se non si fa questo i problemi si ripresenteranno, magari in altra forma. Ci sembra allora che questa realtà permetta di elaborare tre obiezioni contro la proposta che stiamo discutendo. Le mettiamo in ordine (crescente) di importanza:

A. In primo luogo le risorse da mobilitare diventano davvero ingenti, e diventa più pressante il problema se per ottenerle basti colpire i ceti privilegiati oppure non diventi necessario colpire anche i ceti subalterni.

B. In secondo luogo è chiaro che impostare un’opera di radicale trasformazione del paese del tipo indicato preclude qualsiasi altra possibilità. Noi siamo convinti che la società umana possa salvarsi dalle crisi epocali che ci aspettano solo uscendo dal dogma della crescita economica indefinita che ha dominato le società industriali negli ultimi due secoli. Riteniamo quindi che sia necessario avviare il nostro paese su un percorso di decrescita razionalmente controllata. Ma è chiaro che nell’ottica della proposta che stiamo discutendo, questa transizione è impossibile[19]. Se dobbiamo radicalmente ristrutturare il paese per competere con la Germania (e rimanendo nell’UE, come abbiamo spiegato, non c’è altra scelta, pena il ripresentarsi nel medio periodo di problemi simili agli attuali), è chiaro che non possiamo contemporaneamente avviare l’Italia sul percorso della decrescita, perché non ci saranno le risorse per fare entrambe le cose, e soprattutto perché non si può contemporaneamente fare una cosa e il suo contrario, lottare per la crescita e lottare per la decrescita.

C. In terzo luogo, è necessario sottolineare che l’estensione dei fenomeni da contrastare, nell’ottica della proposta che stiamo discutendo, è tale che un intervento strutturale in questo campo costituirebbe una vera e propria rivoluzione. Il nostro Paese necessita di serissime riforme in materia fiscale e tributaria, e in tema di trasparenza e controlli. Ma soprattutto occorre sottolineare che nessun risultato importante potrà essere raggiunto senza sciogliere i legami fra politica ed affari, rivedere le norme che regolano gli appalti, distruggere la criminalità organizzata, risolvere i conflitti di interesse. Conoscendo ciò che è la classe dirigente italiana, il suo sostanziale illegalismo, i perversi intrecci di affari e potere che la caratterizzano, è chiaro, ripetiamolo, che questo è il programma di una rivoluzione. Ma se si propone la rivoluzione bisogna avere chiaro il soggetto sociale al quale ci si rivolge e gli obiettivi che a questo vengono proposti. Il soggetto sociale dovrebbe essere l’insieme dei ceti subalterni italiani. Ma quale obiettivo ci si propone? In sostanza l’obiettivo che abbiamo delineato è quello di cercare di non rimanere indietro nella competizione globale che è tipica del capitalismo neoliberista globale che conosciamo da tre decenni. Ma sappiamo che questa competizione ha costi altissimi per i ceti subalterni, che devono rinunciare ai diritti conquistati nella fase precedente (quella socialdemocratico-riformista del secondo dopoguerra). La vicenda degli “strappi” al contratto nazionale dei metalmeccanici imposti dalla FIAT negli ultimi mesi è indicativa di cosa significhi competere sul mercato globale. Ne risulta che la conseguenza logica della proposta che stiamo discutendo è quella di chiedere ai ceti subalterni del nostro paese di impegnarsi in una lotta rivoluzionaria contro gli attuali ceti dirigenti, con tutti i rischi che questo comporta, per trovarsi poi, come adesso, a non avere nessuna garanzia e nessun diritto, perché tutti i diritti e tutte le conquiste possono essere revocate se diventano di ostacolo alla competitività. E’ chiaro che c’è qui una profonda contraddizione: si può chiamare un popolo alla rivoluzione solo prospettando un profondo cambiamento sociale, non la continuazione dello stesso modello “messo in sicurezza” dal punto di vista dei conti pubblici. Le rivoluzioni si fanno per cambiare la vita, non per fare contenti Trichet o Draghi.

5. Per un’altra Europa: uscire dall’UE.

La discussione precedente non lascia nessuno spazio a proposte politiche che permettano all’Italia di restare nell’UE evitando il massacro sociale che le nuove norme ci minacciano. La conclusione diventa inevitabile: se vogliamo evitare la degradazione irreversibile del paese, la sua “terzomondizzazione”, occorre uscire dall’euro e dall’UE, e contemporaneamente rinegoziare il nostro debito pubblico. Non si tratta di scelte facili, lo sappiamo benissimo. L’uscita dell’euro comporterebbe problemi gravissimi. Ma si tratta di problemi che possono essere affrontati e superati. Il permanere nell’euro comporta invece la degradazione irreversibile del tessuto sociale e civile del paese. Per capirci con una metafora, si pensi al supplizio medioevale della ruota: il condannato veniva legato ad una grande ruota e gli venivano spezzate le ossa a colpi di mazza. Veniva lasciato lì ad agonizzare fra sofferenze atroci per un po’, poi veniva finito con un colpo di mazza allo sterno. Ora, immaginiamo che un condannato a questo terribile supplizio abbia la possibilità di fuggire saltando da una finestra (sotto la quale lo aspettano persone amiche per portarlo in salvo) correndo però in questo modo il rischio di rompersi una gamba. Chiunque sceglierebbe di saltare. Il nostro paese si trova nella stessa situazione. Se rimaniamo nell’euro saremo sottoposti a un supplizio terribile, con pesantissimi e ripetuti colpi che ci spaccheranno le ossa. Se usciamo dall’euro corriamo il rischio di romperci una gamba. Il che non è piacevole, ma è cosa dalla quale si può guarire in tempi ragionevolmente brevi.

E’ ovvio quello che ci conviene scegliere: meglio la finestra.

L’uscita dall’Euro va naturalmente pensata a fondo. Le recenti esperienze di altri paesi possono aiutarci a ridurre di molto le difficoltà connesse alla ristrutturazione del nostro debito pubblico, e alla conseguente svalutazione della moneta. Andranno studiate le misure prese nel corso dell’attuale crisi dall’Islanda, che ha scelto di far fallire le banche private indebitate e di svalutare la propria moneta, e soprattutto le misure prese dall’Argentina all’inizio degli anni 2000, quando prese la decisione di sganciare la propria moneta dal dollaro. Fra le misure che potranno essere prese, possiamo elencare, a titolo puramente indicativo: la temporanea limitazione della quantità di denaro contante prelevabile dai conti correnti, per evitare la “corsa agli sportelli”; programmi di austerità sui beni importati, in modo che l’inevitabile svalutazione abbia il minor effetto possibile; misure di protezione delle industrie esportatrici, per mantenere un buon settore dedito all’esportazione che permetterà di rendere meno dura la svalutazione[20].

La proposta di uscita dall’UE suscita in molte persone una certa resistenza. Sembra che si veda in questa idea una sorta di chiusura nei confronti del mondo globalizzato o il ritorno a un nazionalismo aggressivo o autarchico. Si oppone a questa idea la proposta di restare nell’UE per cambiarla e costruire “un’altra Europa”. Abbiamo già criticato questa idea. Siamo però d’accordo con l’idea che avremmo bisogno di “un’altra Europa”. Il che non è in contraddizione con la proposta di uscita dall’UE. Anzi, l’abbandono dell’attuale Unione Europea rappresenta la precondizione necessaria per la costruzione di un’Europa alternativa.

I rapporti internazionali, le relazioni politiche ed economiche fra Stati, esistono da quando esiste lo Stato, certamente da prima della costruzione della UE, che è una delle possibili forme di questi rapporti, non certo l’unica realizzabile. L’uscita dall’Unione quindi non implica automaticamente nessuna chiusura verso l’esterno.

Forse un paragone storico può chiarire ciò che intendiamo. E’ noto che i Partiti Comunisti del Novecento avevano una fortissima dimensione internazionale, tanto che la struttura che per un certo periodo li ha coordinati si chiamava “Terza Internazionale”. E’ noto altresì che l’ideologia comunista aveva come principio dogmatico quello che nella società comunista si sarebbe estinto lo Stato, e l’umanità comunista si sarebbe unita in un abbraccio fraterno al di là dei vincoli delle frontiere. D’altra parte, sappiamo che il movimento comunista del Novecento appoggiò fortemente le lotte di liberazione dei popoli del terzo mondo dal giogo degli imperi coloniali. Ora, è chiaro che tali lotte avevano come ovvio effetto pratico, se fossero risultate vittoriose come di fatto lo furono, la creazione di nuovi Stati, di nuove frontiere nazionali. Si potrebbe allora pensare che ci fosse una contraddizione nelle politiche dei partiti comunisti: partiti “internazionali” che avevano l’abolizione dello Stato fra i propri obiettivi, e lottavano però per far nascere nuovi Stati. E’ chiaro però che un simile rilievo appare molto ingenuo: gli ideali di fratellanza, di pace, di superamento della barriere, perdono ogni valore, e diventano una ignobile ipocrisia, in una situazione di sfruttamento e di sottomissione come è la situazione coloniale. In quella situazione la creazione di barriere nazionali era un necessario elemento di difesa della dignità e della cultura dei popoli colonizzati. Solo ripristinando una condizione di reale uguaglianza potevano essere resi concreti gli ideali di fratellanza. Il che passava anche attraverso la costruzione di nuovi Stati. La posizione dei partiti comunisti era dunque del tutto ragionevole, e ingenua e astratta l’obiezione che abbiamo indicato. Al pari dell’idea che uscire dall’attuale UE sia in contraddizione con la volontà di costruire una Europa alternativa. Abbiamo documentato che il permanere nell’UE comporta rischi gravissimi di distruzione del tessuto sociale e civile di questo paese. In questa situazione, come si può pensare di parlare di fratellanza fra i popoli europei? Un’Italia impoverita, incarognita, dove solo le mafie riusciranno a garantire un minimo di coesione sociale, come potrebbe dare un contributo di civiltà ad un’Europa diversa dall’attuale? Esattamente come i popoli colonizzati avevano bisogno di staccarsi dagli Imperi coloniali e di costruirsi i loro Stati, per cercare poi forme di collaborazione internazionale su basi di parità, allo stesso modo l’Italia deve staccarsi dall’UE per salvare il proprio tessuto sociale, e cercare poi forme di collaborazione con gli altri popoli europei su basi di parità.

6. I contorni dell’Europa che vogliamo.

E’ difficile disegnare nel dettaglio i contorni di un’Europa alternativa a quella attuale, tali da renderla davvero una libera ed indipendente unione dei popoli che la compongono. Tuttavia, senza nessuna pretesa di essere esaustivi, possiamo elencare alcune delle caratteristiche che ci sembra non possano mancare in un eventuale processo di integrazione europeo democratico e funzionale alle necessità dei cittadini.

Il primo elemento riguarda le istituzioni democratiche dell’Unione.

Ad oggi solo i membri del Parlamento Europeo vengono eletti dai cittadini, ed hanno ben pochi poteri reali. La maggior parte delle decisioni vengono prese dalla Commissione o da altri organismi, quali l’Eurogruppo, l’Ecofin o la BCE. Quel che manca è un sistema di checks and balances che garantisca un efficace controllo democratico sugli organismi esecutivi. Così come manca la garanzia che la BCE agisca in modo indipendente dagli interessi privati. Il capitale della BCE è distribuito fra le banche centrali nazionali, il cui capitale spesso è in mano privata, come in Italia. Dunque anche la BCE è di fatto privata.

Questi elementi sono in forte contrasto con qualsiasi idea di Europa democratica, che non sia mero strumento nelle mani di gruppi economicamente forti. Dunque una Unione che abbia a cuore gli interessi dei popoli che la compongono dovrà avere una Costituzione democratica, ed organismi assolutamente indipendenti dagli interessi privati.

Il secondo elemento riguarda la possibilità di operare liberamente e senza condizionamenti scelte in materia economica. Compresa la possibilità di optare per misure protezionistiche che consentano di salvaguardare le condizioni del mercato interno, al fine di rompere il circolo vizioso della concorrenza globale, che porta alla costante diminuzione dei salari e al peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita, in nome della competitività.

Un terzo elemento riguarda il raggiungimento da parte dell’Europa di una maggiore indipendenza energetica. Dipendere dalle importazioni di materie prime energetiche, vuol dire non essere liberi di implementare politiche economiche autonome, perché sarà sempre necessario scendere a patti con i fornitori. La situazione in questo campo è estremamente difficile. Per soddisfare il proprio fabbisogno, l’Europa dipende per oltre il 50% dalle importazioni di idrocarburi dall’estero, mentre l’Italia supera l’85%[21]. La soluzione non può essere la costruzione di centrali nucleari. Al di là dei gravissimi problemi derivanti della poca sicurezza degli impianti, dall’inquinamento e dello smaltimento delle scorie, l’energia atomica non risolve il problema della dipendenza dall’estero: i Paesi europei dispongono di pochissimo uranio, dunque la costruzione di nuove centrali nucleari comporterebbe un ulteriore aumento delle importazioni. Non resta che puntare fortemente sulle energie rinnovabili. Tutti i Paesi europei dovrebbero moltiplicare gli sforzi a favore dello sviluppo delle energie pulite e della ricerca nel campo delle tecnologie ad esse collegate. Tuttavia, anche se ciò avvenisse, le rinnovabili non potrebbero coprire l’attuale fabbisogno di energia, almeno nel medio periodo. E’ necessario impostare politiche in grado di realizzare una forte riduzione della domanda. Occorre consumare meno energia. Molta meno di quanta ne consumiamo oggi. Il che è necessario anche per abbattere le emissioni di CO2, ed uscire dall’emergenza ecologica che sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza del pianeta.

Il quarto elemento riguarda la difesa. I Paesi europei hanno necessità di una alleanza politica e militare (difensiva) che garantisca la loro piena indipendenza dall’esterno. Un’Europa sufficientemente forte sul piano internazionale potrebbe anche svolgere un ruolo attivo per temperare le mire imperialiste e gli atteggiamenti guerrafondai delle potenze affermate (gli USA) e di quelle emergenti, come la Cina.

Perché l’Unione Europea possa svolgere questo ruolo sono necessari almeno due elementi. In primo luogo, occorre che l’Europa sia in grado di implementare una propria politica internazionale, unitaria ed indipendente. In secondo luogo, occorre che l’Europa non diventi essa stessa una potenza a carattere imperialista. Nel qual caso sarebbe sì autonoma, ma parteciperebbe al caos mondiale entrando in competizione con le altre potenze per l’accaparramento delle materie prime, in particolare energetiche.

Per quanto riguarda il primo punto, occorre sottolineare che l’attuale UE non è in grado di assumere nessun ruolo nello scacchiere internazionale. L’attuale assetto che caratterizza l’Europa è proprio quello di cui hanno bisogno le potenze: una tecnocrazia incentrata esclusivamente sulla dimensione economica, incapace di produrre una politica estera unitaria. La UE non ha un proprio sistema di difesa, né un esercito, e non a caso di fronte alle guerre degli ultimi tempi, i paesi europei si sono costantemente divisi, con geometrie sempre inedite, non mostrando mai la capacità di proporre soluzioni comuni alle controversie internazionali.

Per quanto riguarda il secondo punto, c’è davvero da augurarsi che questa Europa non diventi una potenza. Data l’enorme dipendenza di materie prime energetiche che la caratterizza, essa sarebbe tentata di risolvere il problema nel modo tipico delle potenze: la guerra. L’Europa diventerebbe l’ennesima potenza politico-militare presente sullo scenario internazionale, provocando un ulteriore aumento del rischio di conflitti terrificanti, finalizzati all’accaparramento delle limitate risorse energetiche disponibili (soprattutto petrolio e gas).

Riassumendo: l’Europa, per garantire la proprio sicurezza e per diventare capace di assumere un ruolo significativo sul piano internazionale, ha bisogno di implementare una politica estera comune. Ed ha bisogno di dotarsi di un proprio esercito e di un proprio sistema di difesa. Se però questo avvenisse all’interno dell’attuale UE, l’Europa si trasformerebbe immediatamente in una potenza militare aggressiva, affamata di materie prime energetiche. La dipendenza dalle importazioni di idrocarburi sarebbe la stessa di oggi, ma la forza militare di una Europa politicamente coesa e dotata di un esercito cambierebbe lo scenario internazionale in modo estremamente pericoloso.

Dunque è solo rimettendo in discussione i fondamenti dell’attuale UE che è possibile riaprire il confronto su una nuova forma di alleanza politica, economica e militare. Per pensare ad una Europa di pace e di cooperazione fra i popoli, è necessario liberarsi dai condizionamenti dell’Ecofin, del patto di stabilità e crescita, del "Semestre Europeo". E’ necessario rompere i legami con l’Unione, e lanciare un progetto di aggregazione fra Stati radicalmente nuovo, basato sulla volontà di implementare una comune politica estera di pace e cooperazione internazionale.

L’unica possibilità per farlo è abbandonare per sempre le politiche liberiste e l’inseguimento della “crescita”. Quel che serve è coordinare politiche decresciste, in particolare di forte diminuzione del fabbisogno di idrocarburi. Pace ed ecologia non possono essere separati. Sono entrambi aspetti di un unico disegno di equilibrio fra Stati, popoli e natura.

Ma tutto questo non può essere fatto all’interno dell’attuale UE, che è totalmente indirizzata verso la crescita economica, e che non può essere cambiata, per i motivi che abbiamo indicato.

In definitiva, chi voglia davvero un’Europa diversa, democratica, pacifica e indipendente, non può che chiedere l’uscita da questa Europa.

Genova, giugno 2011.

Marino Badiale e Fabrizio Tringali
Fonte: www.megachip.info Link: http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/6342-meglio-la-finestra-liberarci-dalleuro-per-unaltra-europa.html
17.06.2011

[1] Gli autori ringraziano Massimo Bontempelli per numerose conversazioni sui temi qui svolti. Ogni errore o imprecisione è ovviamente responsabilità degli autori.

[2] “L’ESM, di comune accordo con il Fondo monetario internazionale, sarà in grado di concedere dei prestiti ai paesi dell’Eurozona in difficoltà, ma a condizioni ben precise, ovvero a seguito di un piano di austerità e di riforma delle finanze pubbliche. […] L’ESM verrà attivato solo a seguito di una decisione unanime dei paesi e come ‘ultima ratio’, ovvero solo in caso in cui la stabilità dell’euro sia concretamente minacciata”. Citiamo da La riforma della governance economica europea, a cura di Carlo Altomonte, Antonio Villafranca e Fabian Zuleeg. Quaderno di approfondimento dell’ISPI n.27, aprile 2011.

[3] “Riformare i sistemi pensionistici: A sostegno del risanamento di bilancio, occorre riformare i sistemi pensionistici per aumentarne la sostenibilità.

• Gli Stati membri che non lo hanno ancora fatto devono innalzare l’età pensionabile e collegarla alla speranza di vita.

• Gli Stati membri devono ridurre in via prioritaria i piani di prepensionamento e utilizzare incentivi mirati per promuovere l’occupazione dei lavoratori anziani e l’apprendimento permanente.

• Gli Stati membri devono favorire lo sviluppo del risparmio privato per integrare il reddito dei pensionati.”

[Annual Growth Survey 2011, punto 5 – scaricabile a questo link: http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/it_final.pdf ]

[4] http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-06-02/trichet-contro-crisi-debiti-124514.shtml?uuid=AaUcUecD

[5] http://www.nytimes.com/interactive/2010/05/02/weekinreview/02marsh.html

[6] La riforma della governance economica europea, a cura di Carlo Altomonte, Antonio Villafranca e Fabian Zuleeg. Quaderno di approfondimento dell’ISPI n.27, aprile 2011.

[7] La riforma della governance.., cit., pag. 12-13.

[8] Ibidem.

[9] http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2011/delibera_28_2011_contr.pdf e http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_controllo/2011/delibera_28_2011_contr_allegato.pdf

[10] Lo fa notare fra gli altri un articolo del Sole24ore, dicendo che "nonostante uno straordinario sforzo compiuto nell’anno passato, il disavanzo di bilancio greco rimane alto, mentre l’economia è in grande sofferenza in parte anche a causa di quello sforzo [corsivo nostro, MB-FT]. Il risultato è che l’indebitamento di Atene continua ad aumentare invece di diminuire”, si veda http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-26/francoforte-tabu-grecia-063516.shtml?uuid=AabloVaD. Osservazioni simili le fa Mario Blejer, già presidente della Banca Centrale dell’Argentina, secondo il quale il programma imposta dall’UE alla Grecia “sarebbe basato sull’illusione che il debito sia sostenibile, ma ignora il fatto che il paese è in recessione e senza crescita diminuisce la possibilità di saldare i conti”, http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/6311-qgrecia-senza-soluzione-serve-un-defaultq.html

[11] Si tratta probabilmente di un processo che non riguarda solo l’Italia. Lo studioso francese Bernard Conte ha coniato il neologismo “Terzomondizzazione” per descrivere questo processo di portata mondiale. In Europa Occidentale i paesi mediterranei sembrano rappresentare i primi candidati per l’operazione di “Terzomondizzazione”.

[12] Si veda il Rapporto Istat “La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali” (Luglio 2010 , http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20100713_00/testointegrale20100713.pdf)

e la “Relazione concernente i risultati derivanti dalla lotta all’evasione fiscale”, (al 30 settembre 2007)

Camera dei Deputati – Doc. CCXXXVII n. 1

http://leg15.camera.it/_dati/leg15/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/237/001/INTERO.pdf

[13] Il recentissimo via libera al nuovo pacchetto di aiuti alla Grecia per scongiurare il rischio di default, dato dalla troika composta da Bce, Commissione europea e Fmi non le contempla nell’insieme di politiche economiche e finanziarie concordate in cambio del prestito. Quel che invece interessa sono le misure di compressione della spesa e le privatizzazioni. La nota ufficiale diffusa dalla troika specifica che l’accordo con il governo greco prevede la creazione di una "agenzia di privatizzazioni gestita in modo professionale e indipendente", e la stesura di una lista di asset statali da privatizzare "entro la fine del 2015" pari ad un valore di "50 miliardi di euro".

[14] Molti dati a questo proposito sono esposti in F. Carlucci, L’Italia in ristagno, Franco Angeli 2007.

[15] “Un atteggiamento che ha sostituito la retorica europeistica all’analisi economica ha imposto all’Italia l’ancoraggio della propria valuta a quella di Paesi con strutture economiche ben più forti, violando il principio secondo il quale il tasso di cambio deve rispecchiare il rapporto fra i fondamentali interni e quelli esteri”. F. Carlucci, op. cit., pag. 26.

[16] Commentando i dati sulla perdita di competitività italiana, Carlucci nota che “con questi dati i maliziosi potrebbero dimostrare che l’ancoraggio all’area del marco sia stata un’operazione chiaramente favorevole alla Germania e, in maniera perfettamente speculare, sfavorevole all’Italia”. F.Carlucci, op. cit., pag. 51.

[17] http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=21034. Si veda anche, per considerazioni analoghe a quelle di Giacché, l’articolo di Vincenzo Comito “Atene, l’euro e il consenso di Berlino”, http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Atene-l-euro-e-il-consenso-di-Berlino-8594

[18] L’importanza di questo tema è stata rilevata, con largo anticipo sulla crisi europea odierna, da Heiner Flassbeck. In un’intervista all’Espresso del 12 giugno 2008, Flassbeck sosteneva infatti che i differenziali di produttività nell’Eurozona avrebbero reso insostenibile la costruzione europea, e concludeva “in una unione monetaria questa situazione pone le premesse per il disastro. Prima o poi il sistema collasserà. In 5, 10 o 15 anni, non so. Ma il sistema monetario, con questi enormi divari fra aziende italiane e tedesche, cadrà di sicuro” (Heiner Flassbeck, economista tedesco, è direttore della divisione su globalizzazione e sviluppo delle Nazioni Unite, ed è stato viceministro delle Finanze del governo Schroder). Anche Nouriel Roubini, l’economista di origine iraniana divenuto famoso per aver predetto la crisi finanziaria, rileva come all’origine dell’attuale crisi vi siano le cruciali differenze economiche fra i vari Stati dell’Unione: “L’ approccio confusionario alla crisi dell’Eurozona non è riuscito a risolvere i problemi fondamentali sulla divergenza economica e di competitività nell’Unione. Andando avanti così l’euro si muoverà attraverso disordinati tentativi di soluzione, e alla fine arriverà a una spaccatura dell’unione monetaria stessa, con alcuni dei membri più deboli buttati fuori. L’Unione Economica e Monetaria non ha mai pienamente soddisfatto le condizioni di un’area valutaria ottimale. I suoi dirigenti speravano che la loro mancanza di politica monetaria, fiscale e di di cambio, avrebbe provocato un’accelerazione delle riforme strutturali che, si sperava, avrebbero visto convergere la produttività e i tassi di crescita. La realtà si è rivelata ben diversa” (http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1422-nouriel-roubini-leurozona-si-avvia-al-crollo ).

[19] La transizione verso un sistema non più orientato alla “crescita” necessita di un ingente impiego di risorse pubbliche. Vedi, di Badiale e Bontempelli, “Una politica economica per la decrescita”: http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/6291-una-politica-economica-per-la-decrescita.html

[20] Pur non caldeggiandola, il premio Nobel per l’economia Paul Krugman discute seriamente l’ipotesi di uscita dall’Euro, si veda il suo articolo http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-21/atene-buenos-aires-081002.shtml?uuid=AanIs8YD.

[21] Eurostat -“Energy – Yearly statistics 2008” scaricabile qui: http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-PC-10-001/EN/KS-PC-10-001-EN.PDF.