FILIPPO ROSSI, IL GIORNALISTA CHE SI È RIBELLATO AI GRANDI MEDIA: “VI RACCONTO COME UCCIDE LA NATO”

Di

Jacopo Brogi

Intervista esclusiva al freelance italosvizzero autore del libro a giorni in uscita sui crimini occidentali in Afghanistan: un eccezionale reportage indipendente che documenta sul campo come agisce il sistema atlantico; in primo piano, le testimonianze raccolte fra la popolazione sugli eccidi perpetrati dall’alleanza occidentale contro i civili, in uno dei paesi geo strategicamente più importanti del mondo in venti anni di occupazione militare e guerra.

Filippo Rossi è un giovane giornalista, oggi freelance. Si è ribellato alla propaganda dei grandi media per cui lavorava fino a pochi mesi fa. Grandi media, italiani e non solo.

Ha detto “No” all’Ucraina: ha scelto di non partire “per motivi legati all’etica professionale”, e poi si è lanciato in proprio, nel giornalismo d’inchiesta.

Perché, si è reso conto – parole sue – “della manipolazione mediatica” e ha deciso di allontanarsi dal sistema del giornalismo mainstream e di documentare la realtà; quelle verità che l’Occidente occulta, per dominare il resto del mondo, soprattutto chi è più povero in termini di forze e capitali, ma ricchissimo di risorse e ricchezze da depredare.

Parliamo di materia, non di cultura. Il dominio vuole annientare la cultura che si tramanda da secoli e secoli, per imporre la materia ed una nuova cultura, il proprio sistema. E Filippo Rossi ha documentato in un libro eccezionale tutto questo e anche di più, rischiando in proprio a tutti i livelli, per raccontarci la tragica realtà dell’Afghanistan e del suo popolo.

NATO per uccidere“, uscirà tra pochi giorni in libreria per Arianna EditriceEdizioni Macro.

Perché l’Afghanistan? Perché è stato il primo conflitto post 11 Settembre che ha coinvolto l’Occidente: un innesco che ha messo in moto quella “Guerra Infinita”, ben descritta da Giulietto Chiesa nel suo libro del lontano 2002. Ed è la stessa guerra infinita che stiamo vivendo oggi.

Vengono subito alla mente le atroci morti di Gaza, che mentre state leggendo questo articolo stanno scandendo il genocidio in corso con l’ennesimo pretesto della lotta al terrorismo; e poi il conflitto scatenato contro la Russia usando il popolo ucraino come carne da cannone. Il cannone è sempre quello della NATO. E grazie a Filippo Rossi scopriremo COME. Come opera, come agisce e perché. E come uccide.

Tante storie, di dolore, di rabbia, di ingiustizia; ma anche di sana e umana speranza nella vita, che – nonostante tutto – va avanti e si fortifica. Non dimentica, ma si ribella.

Ringraziamo Filippo per il suo coraggio nella ricerca della verità e della giustizia. Troppe volte, o forse quasi sempre, l’informazione è il nostro più grande problema; quando è solo propaganda che ci detta come pensare e cosa conoscere di questo mondo e della nostra vita.

Altre volte, come nell’ intervista che state per leggere – che ci parla di un libro in uscita di grande valore – l’informazione può forse diventare una flebile luce in questi tempi così oscuri.

Sta a noi, a tanti di noi – a chi vorrà – provare ad alimentarla: prima per capire, e poi per provare insieme a cambiare.

  • Buongiorno FilippoNATO per uccidere” è un viaggio nell’inferno dei crimini americani in Afghanistan. Leggeremo i racconti di un popolo, le sue tragedie, le sue sofferenze e verità. Quali sono i perchè e la genesi di questo libro e quali difficoltà ha incontrato nel realizzarlo e nel darlo alle stampe?

“Inizierei con una precisazione che di sicuro non va in difesa dell’operato degli Stati Uniti (parlando di USA mi riferisco alla politica del governo e dell’alta finanza che lo controlla, non alla popolazione, anch’essa vittima come tutti noi).

I crimini commessi dalla NATO in Afghanistan non sono solo americani ma di tutti i paesi (anche se ovviamente i dati dimostrano che Washington sia il più grande responsabile e finanziatore dell’ Alleanza Atlantica), gli eserciti e i politici che hanno partecipato alle missioni NATO in Afghanistan, sostenendo senza nessuna remora le politiche omicide e criminali che l’Alleanza ha protratto per decenni.

Questo è un punto chiave che non scagiona gli USA , bensì dimostra come il paradigma di vassallaggio degli alleati NATO – anche sancito nell’articolo 5 del suo trattato, entrato in vigore per la prima volta dopo il 2001 e che sostanzialmente chiama alle armi tutti i paesi dell’Alleanza ad unirsi a un membro aggredito contro il nemico  – possa facilmente portare a un’escalation odierna senza che la popolazione possa avere nessun diritto di espressione (cosa che oggi possiamo vivere sulla nostra pelle).

Dopo i fatti dell’11 settembre, l’articolo 5 entrò in vigore per la prima volta nella storia e, senza batter ciglio, i vassalli degli USA si unirono alla lotta contro il povero Afghanistan, povero e debole, senza nessun dibattito pubblico.

Ritornando al libro e le sue ragioni di essere, posso sicuramente affermare che tutto è nato da una personale volontà di portare le voci (anche se mai in maniera soddisfacente per questioni di tempo, spazio e mezzi) delle vittime di traumi, omicidi e attacchi ingiustificati da parte di un’Alleanza mossa da un’ideologia arrogante, che è riuscita attraverso il suo ego smisurato a devastare in maniera irreparabile un paese intero. E l’Afghanistan e il suo popolo, ahimé, non sono un’eccezione ma una delle tante.

Questo ha influenzato molto la maniera di lavorare dei reporter e giornalisti occidentali, visti come l’unica voce della verità da parte del resto della comunità.

Lavorare come reporter occidentale in Afghanistan, durante la guerra, era quindi come vivere in una bolla dettata dalla solita dicotomia ‘cattivi’ (Talebani) contro ‘buoni’ (esercito repubblicano sostenuto dalla NATO).

Questo ha portato i giornalisti a dimenticarsi, a fare fatica ad accedere a determinate informazioni, a censurare o sminuire tutte le azioni violente contro civili da parte dell’Occidente.

Per varie ragioni:

paura di perdere il posto, ma anche fiducia smisurata nell’operato di quell’Occidente che si professa superiore in tutto ciò che concerne la vita umana, la conoscenza, la pace.. . Insomma, per farla breve, un vero e proprio lavaggio del cervello.

Per anni, e qui faccio un mea culpa verso tutti coloro che sono stati vittima di questa barbara disinformazione, sono stato anche io parte di questo gioco manipolatorio pur mantenendo un certo scetticismo. Ma il gioco era semplice: ‘Vuoi mangiare? Allora adeguati, altrimenti puoi andare a fare altro’. Difficile da descrivere la grande frustrazione che vivevo.

Inutile sottolineare, tornando alle ragioni iniziali, l’amaro in bocca che mi rimase, quando capii che i casi di violenze perpetrati dai soldati occidentali su bambini, donne e uomini innocenti, non erano ‘alcuni’ ma tantissimi.

Inutile dire che quando scoprii che in ogni angolo dell’Afghanistan ogni famiglia aveva perso almeno un individuo a causa della coalizione internazionale, la rabbia cresceva. ”

Ma come, questi non erano qui per migliorare le cose? Come si possono migliorare le cose con le bombe? Me lo chiedevo spesso. Il reporter di guerra era un lavoro terribile. Ma dopotutto eravamo i primi ad essere lavati nel cervello.

Quando, nel 2019, entrai in casa di Haji Wazir, un uomo che aveva perso 16 membri della sua famiglia, rimanendo solo con un figlio a causa di un attacco ingiustificato da parte di soldati americani (versione ufficiale: un soldato era entrato nella casa e aveva ucciso tutti in preda a una furia omicida alla ‘Full metal jacket’), lo stesso figlio, Habib – ormai tredicenne e rimasto orfano di madre e analfabeta – mi disse: “Straniero, io ti odio”.

Fu lì che cominciai a rendermi conto dell’odio che il popolo afghano provava nei confronti degli stranieri, i quali continuavano ad infliggere loro una sofferenza indescrivibile ormai da decenni.

Dissi quindi al mio traduttore che avrei voluto scrivere un libro su questo tema, riportando tutti i crimini attraversando l’Afghanistan. Mi rispose “yeah”, poco convinto.

Era un lavoro che molti consideravano impossibile, pericoloso e soprattutto inutile.

Mappa dei casi riguardanti i civili ricercati personalmente da Filippo Rossi per il suo libro inchiesta

Difatti, nel 2019, alcune regioni erano difficili da raggiungere, se non impossibili. Erano isolate in preda alla guerra, ai trafficanti. Già quell’uomo, Haji Wazir, quando mi incontrò per la prima volta a Kandahar mi disse che il suo villaggio – che si trova nel distretto di Panjwayi –  forse avrebbe reagito male alla mia presenza. Dopo le forze di occupazione, ero il primo straniero a visitare quel luogo devastato dalla presenza di una base yankee. Era la linea del fronte, molto pericoloso.

Ma fu quella vicenda, che mi diede la forza, il coraggio e la decisione di cominciare la mia ricerca.

Un’inchiesta che mi ha portato a visitare tutte, o meglio, quasi tutte le province afghane per incontrare e ascoltare le storie.

Per assurdo, visto il numero infinito di casi da raccogliere, ho dovuto prendere una decisione molto fastidiosa e umiliante: ossia concentrarmi sui casi più importanti, quelli dove a morire erano decine di persone, spiegando a padri, fratelli, madri che non potevo raccogliere tutte le storie che avevano comportato “poche morti”. Orribile. Brutale. Una decisione che io stesso ho reputato immorale ma purtroppo necessaria, perché può dimostrare un fatto che terrei a sottolineare, ovvero quanta morte avessero seminato le truppe di occupazione e, soprattutto, quanto fossero rimasti negletti migliaia di casi. Nascosti e censurati, o semplicemente dimenticati.

Quando ho deciso di prendere l’impegno, molte sono state le volte in cui ho esitato: continuare o meno?

Da un lato c’era la questione economica. Non ho voluto assolutamente ricevere alcun finanziamento, nessun aiuto ma rimanere fedele alla mia linea senza nessuna influenza esterna.

A volte i soldi erano pochi, dovevo pagare traduttori, spostamenti, tutto di tasca mia. Poi c’era l’impegno ingente che richiedeva un investimento di tempo non indifferente.

Alcune province non possedevano nemmeno le strade, ed erano a giorni di distanza dalla capitale.

Bisognava attraversare strade per i carri, cavalli e asini, passare letteralmente sulle cime di colline rocciose cercando di individuare veri e propri sentieri inesistenti, quasi fosse un freestyle.

Poco sonno, tanto stress. Spesso significava anche arrivare in un luogo dimenticato da tutti e non trovare la persona che si voleva intervistare. I rischi non erano solo militari, ma spesso erano rischi dovuti agli spostamenti. Dormire a casa di persone dei villaggi è stata un’esperienza indimenticabile, ma era anche poco raccomandabile, in un paese dove la guerra era ormai la quotidianità.

Insomma, a tutti questi problemi, si è aggiunta la successiva fase di pubblicazione del manoscritto: sono stato censurato da un editore che – suppongo per paura – ha preferito non compromettere la sua posizione in un momento di guerra d’informazione (era il 2022/2023 in piena guerra ucraina).

In seguito, una televisione pubblica (non italiana ma svizzera) mi ha censurato, mentre un videomaker voleva venire e filmarmi mentre lavoravo. La NATO andava protetta e questo libro era, è scomodo.

Finalmente le Edizioni Macro hanno deciso di pubblicarlo. Un gesto di coraggio non indifferente, che apprezzo molto.”

© Foto Filippo Rossi

  •  Lei ha raccontato meritoriamente l’Afghanistan anche sui grandi media: cosa si puo’ dire e cosa non si può dire al grande pubblico?

“Come ho accennato in precedenza, l’occupazione dell’ Afghanistan non è avvenuta solamente militarmente, bensì c’è stato un tentativo di lavaggio del cervello sia nel paese che all’estero circa l’operato occidentale. Una conditio sine qua non per mantenere l’equilibrio ed il controllo della situazione.

In ogni guerra, che viene fomentata e creata, prima o agli inizi di un’invasione bisogna preparare il terreno: l’esercito di think tank, media, ONG, organizzazioni internazionali e – non dimentichiamo – le potenti fondazioni con scopi ben precisi, si sono riversate dopo l’invasione gestendo e manipolando la parte informativa e di comunicazione per conto dell’occupazione NATO e della repubblica fantoccio creata dagli USA (costituita, ricordiamolo, da signori della guerra e della droga, gli stessi che avevano commesso crimini indicibili anni prima o che avevano interessi con le compagnie petrolifere o multinazionali americane, vedasi, come esempio, il primo presidente Hamid Karzai).

Intendiamoci, questo non è avvenuto in modo diretto, bensì indiretto. È quello che al giorno d’oggi si chiama ingegneria sociale. Le Fondazioni ed i loro tentacoli costituiti da tutte le organizzazioni che operano sul territorio, hanno avuto due scopi:

1) Creare in Afghanistan un’élite occidentalizzata, vicina al potere atlantico con valori decadenti, ma all’insegna del ‘buonismo’ dell’apertura al mondo; come il consumo dell’alcool, il disprezzo della propria cultura, delle proprie origini, il disprezzo della propria religione, per poi inculcargli i valori occidentali, in modo da estraniarli e sradicarli dalle loro origini.

Lo sviluppo ed il sostegno dato a molte università, pubbliche e private, ha via via contribuito in maniera significativa a creare una nicchia di società che viveva in modo anacronistico e completamente distaccata dal resto del paese, essa si rinchiudeva in qualche quartiere di Kabul, spesso dietro muri di cemento proteggendosi da ‘coloro che odiavano il progresso’.

Questo ha permesso di avere un appoggio interno per giustificare l’operato e la presenza delle forze occupanti, che erano viste come portatrici di valori migliori, più consoni alla “libertà”.

2) Si cominciò a creare l’immaginario comune, per l’élite occidentalizzata afghana e quella occidentale che si nascondeva dietro ai muri anti-esplosione di Kabul, che la popolazione abitante le zone rurali, ovvero la maggior parte del paese, erano potenziali nemici e sostenitori dei talebani. Questa piccola élite, a poco a poco formatasi in Occidente o nelle scuole occidentali in Afghanistan, si è infiltrata in tutti i settori del potere, dalla polizia, all’esercito e nel governo, il quale non ha mai avuto nessun tipo di credibilità e di indipendenza nei confronti delle decisioni degli Stati Uniti e della NATO. Cosi funzionava anche l’esercito, rifornito e dipendente dall’addestramento e dalle coordinate fornite dai sistemi NATO.

© Foto Filippo Rossi

All’esterno invece, e qui posso rispondere alla sua domanda, i media, i think tank, le Ong, ecc.. hanno contribuito alla disinformazione, raccontando una guerra senza informazioni precise, senza rendersi conto dei veri interessi e non conoscendo nemmeno tutti gli attori.

In parte, perché i giornalisti che partivano per l’Afghanistan non avevano nessuna idea di cosa fosse il paese e si limitavano a rimanere a Kabul per paura, restrizioni assicurative, ecc… (un esempio: dopo la guerra, furono alcuni blogger che arrivarono in Afghanistan senza conoscerlo affatto, a disinformare la gente su argomenti inesistenti, diventando però gli eroi del giornalismo italiano).

In parte, perché le vere ragioni erano mascherate dalla propaganda e dalla narrativa ufficiale che non poteva essere messa in discussione. In particolare, si era riusciti a disumanizzare il civile afghano delle province, a creare l’immagine di  un contadino analfabeta che non aveva nessuna conoscenza se non per arare i campi.

In realtà, i civili afghani che vivevano fuori dalle principali città, erano molto informati e seguivano con attenzione ciò che succedeva. Più la NATO continuava con gli abusi, più aumentava il loro risentimento, il che giustificava ancor di più la disinformazione sul loro conto da parte dell’élite afghana e dei media occidentali.

Inoltre, il lavaggio del cervello, come accade ancora oggi in molti luoghi del mondo, aveva fatto sì che i civili fossero solo informatori inaffidabili. I giornalisti, quindi, prendevano informazioni prevalentemente da fonti ufficiali, provenienti da quelle élite vicine all’Occidente che spesso trafficavano, rubavano e uccidevano ma che alla fine decidevano cosa andava e cosa non andava detto.

Durante la guerra, parlare dei talebani era tabù. Erano esseri sconosciuti, visti come animali e pericolosi. Ma nessuno parlava mai delle loro risorse, sul come ricevevano i finanziamenti, che interessi avevano, perché altrimenti si finiva per essere bollati come ‘filo-talebani’.

Ebbene, parlare male delle operazioni NATO e delle operazioni del governo e dei loro servizi segreti (le NDS, addestrate e controllate dalla CIA) potenzialmente poteva costare la permanenza nel paese o addirittura si poteva essere seguiti e minacciati. I criminali che rapivano erano spesso legati a gruppi mafiosi che avevano legami forti con la presidenza. Era un circolo ristretto. Questo perché il caos giovava ai veri scopi dell’occupazione.

Quindi, per rispondere in definitiva, fare il reporter in Afghanistan significava essere sempre in linea con la narrativa ufficiale: i talebani erano i cattivi finanziati da stati canaglia e che combattevano l’occupazione occidentale, la quale cercava di imporre la democrazia e portare un nuovo modo di pensare.

Nessuno però parlava di ciò che succedeva con il traffico di droga e la NATO, con il passaggio di armi e soldati al sedicente Stato Islamico Khorasan.. . Non si poteva dire, perché, sebbene parlamentari e militari afghani sapevano bene quello che accadeva nei loro distretti e lo dicevano apertamente, non avevano credibilità alcuna da parte mediatica e non avevano prove tangibili alla mano.

Infine, il punto più basso lo si è toccato con l’arrivo dei talebani a Kabul nell’agosto del 2021.

Non ho paura di dirlo: sono stato accusato di misoginia, di essere un filo-talebano, solamente per dire cosa accadeva davvero nel paese. Era ovvio, e ne ho le prove, che gli USA, la NATO ed i loro fantocci del governo Ghani, avevano svenduto il paese ai talebani, i quali avevano ricevuto sostegno militare anche dal Qatar, alleato degli USA ma anche direttamente da militari NATO in loco.

Le prove sono lapalissiane. Ma anche questo era tabù. Bisognava difendere la resistenza di criminali come i Massud e i Dostum che parlavano ma non avevano nessuna possibilità di difesa perché ormai il loro momento di gloria era finito. Era ora che sparissero, ricchi e beati, in altri paesi.

Bisognava pesare le parole per non uscire dal seminato. Ciò non significa che bisognava difendere una parte o l’altra, ma era impossibile essere semplicemente obiettivi.

Bisognava dire che le donne afghane, le quali avevano conquistato con tanta sofferenza la loro agognata libertà di vivere, studiare, leggere e parlare, ora avevano perso tutto. Era la propaganda perfetta, lo strumento perfetto che rappresenta l’isteria odierna del femminismo.. . In realtà, erano spesso cose sbagliate da dire.

Voglio essere chiaro: la condizione femminile in Afghanistan non è da elogiare. Ma quella élite criminale che negli anni ’90 aveva stuprato, ucciso e derubato, e che poi con l’arrivo degli USA era diventata regnante nel paese, aveva usato, così come l’Occidente, l’immagine di una donna emancipata solo per mostrare i falsi sviluppi del paese e distrarre l’opinione pubblica internazionale dai veri problemi.

In realtà, non è andata così. Le donne lavoravano in pochi quartieri di Kabul, studiavano e ricevevano incarichi ma sempre sotto qualche ricatto (spesso a sfondo sessuale). Non c’era libertà, era tutto effimero. Con l’arrivo dei talebani, le cose non sono cambiate granché. Le donne sono tornate a studiare, anche se in molti ministeri non hanno più lavorato, è vero.

Ma la maggior parte del paese non ha visto nessun cambiamento perché la cultura afghana non prevedeva determinati comportamenti. Da qui nasce la grande diatriba. La causa femminile, in Afghanistan, è stata usata e manipolata per creare una narrativa a favore dell’occupazione. Non vi ricorda niente di quello che succede da noi con tutta la follia riguardo la parità di genere? Come si dice: non è tutto oro ciò che luccica.

In conclusione, parlare di verità scomode, come è successo con il caso ucraino, ha portato alla censura, ad essere deriso e insultato dai ‘professionisti dell’informazione’. ”

Una madre ha riposto sopra la propria copia del Corano la lettera da spedire al governo di Kabul per chiedere verità e risarcimenti dopo la morte violenta del proprio figlio. Lettere che in passato venivano inviate da tante famiglie, ma dopo qualche anno dall’inizio dell’occupazione, questa pratica si è interrotta. Oggi sono soltanto cimeli che ricordano le persone scomparse. – ndr – © Foto Filippo Rossi

  • Ci ha appena detto che il ritiro americano del 2021 non è stata una sconfitta occidentale, un nuovo Vietnam 2.0, ma un ritiro concordato?

“Io lo definirei una sorta di misto fra sconfitta totale e sconfitta concordata in precedenza. Bisogna partire dal presupposto che agli alti livelli, specialmente militari, nulla accade per caso. Tutto è calcolato nei minimi termini. Da questo punto di vista, rende difficile credere che il ritiro occidentale dall’Afghanistan sia avvenuto per puro caso.

In parte, l’esperienza afghana è stata un disastro sotto il punto di vista militare, umanitario, sociale perché la NATO e l’Occidente hanno dimostrato chiaramente che i loro obiettivi erano tutti tranne quelli millantanti dalla propaganda come la ‘sconfitta del terrorismo’, l’abolizione del narcotraffico, la democrazia, ecc.. .

Hanno fallito in tutto e sono fuggiti da un giorno all’altro abbandonando tutto ciò che avevano costruito.

Questo è sinonimo che tutto ciò che hanno costruito gli occidentali era effimero e sacrificabile, quindi che serviva solo a giustificare la loro presenza per altri scopi.”

© Foto Filippo Rossi

  • Nel luglio 2023 il viceministro degli Esteri iraniano per gli Affari politici Ali Bagheri Kani denunciava pubblicamente l’Occidente ed il suo braccio armato, la Nato. Riferendosi alla ventennale presenza dell’Alleanza Atlantica a Kabul, svelava non proprio un dettaglio ma forse la chiave del conflitto e dell’occupazione militare: in Afghanistan, la produzione di narcotici è aumentata di 45 volte dall’inizio della cosiddetta “guerra al terrorismo” post 11 settembre. Quale importanza e riscontro sul campo possono avere queste autorevoli affermazioni?

” È la pura verità. Ora, non posso confermare i dati esatti forniti dal viceministro degli Esteri iraniano, ovvero dicendo che la produzione è aumentata di esattamente 45 volte.

Tuttavia, è esattamente quello che è successo ed è un argomento che tratto in maniera dettagliata nel libro.

Il narcotraffico è stata una delle ragioni decisive che hanno portato all’invasione e all’occupazione dell’Afghanistan.”

© Foto Agenzia Ansa

  • Come?

“Sarebbe troppo lungo discuterne in questa sede. Trovo però doveroso ricordare – invitando i lettori a leggere nei dettagli ciò che ho scritto nel libro – che l’oppio (e l’hashish in minor misura) e in seguito le metanfetamine, sono stati due mercati imprescindibili per le élite occidentali e l’economia perversa in cui viviamo.

Questi mercati sono cresciuti con l’occupazione NATO. Dati alla mano, possiamo dire che il business mondiale di oppiacei e eroina ammonta a circa 500 miliardi di dollari annui.

Inutile dire che è un mercato al quale le élite finanziarie, le multinazionali ed i loro fantocci criminali (gruppi mafiosi, terroristi ecc..) non vogliono assolutamente rinunciare. Il dato da tenere presente è che circa l’80-90% della produzione di oppio a livello mondiale proviene oggi dall’Afghanistan.

Storicamente non è sempre stato così, e sappiamo bene come l’oppio sia stato usato dai britannici nel XIX secolo per fomentare le guerre e distruggere l’impero cinese, riciclandone i proventi tramite Hong Kong e la banca HSBC.

Se l’Afghanistan, già negli anni ’80 e ’90, produceva quasi tutto l’oppio presente sul mercato mondiale grazie all’aiuto della CIA, che facilitò così anche il finanziamento dei famosi mujahidin afghani contro l’URSS, possiamo immaginare solamente il terrore in volto dei principali attori della produzione di oppiacei, quando nel 1997 videro il Mullah Omar decretare l’eradicazione di tutte le piantagioni di oppio, la quale cominciò fra il 1999 e il 2001.

Difatti, ci fu una caduta drastica della produzione di oppio proprio un anno prima dell’invasione dell’Afghanistan, tanto che la produzione scese ai minimi storici, a pochissime tonnellate di produzione.

Possiamo considerare ciò, già di per sé, come una dichiarazione di guerra all’Occidente “che conta” per davvero. Non i piccoli gruppi mafiosi e terroristi che conosciamo, ma le grandi banche di Wall Street, della City di Londra, di Lugano, Zurigo, Ginevra e le multinazionali della farmaceutica.

Un oltraggio da parte di  contadini poveri che cercavano di porre fine al principale rifornimento di sostanze psicotrope e che servivano alla continuazione dei loro piani di soggiogamento.

Con l’arrivo dell’occupazione NATO si è poi riprodotto un sistema identico a quello spiegato sopra: da un lato la propaganda, la narrativa ufficiale e le informazioni governative affermavano che erano in atto i programmi di sradicamento delle piantagioni di oppio, presenti in particolare in tutte le zone più colpite dalla guerra (e per una ragione precisa, che spiegherò a breve).

Ma dietro le quinte, senza nascondersi troppo, il paese si era trasformato in un vero e proprio narco-stato. Le piantagioni e la produzione, già nel 2003, era aumentata esponenzialmente con tassi più alti di quelli disponibili negli anni 90′. Dopo il 2010 invece, superò addirittura di gran lunga ogni tipo di statistica precedente.

Questo business era protetto in vari modi. In parte dall’élite filo-occidentale al potere a Kabul, loro stessi narcotrafficanti per eccellenza (come i Karzai, famiglia molto potente a Kandahar, con interessi ben precisi, sia nel narcotraffico che nel traffico di armi con i talebani.. ). In parte, dalle basi NATO che spuntavano in vari luoghi remoti dove potevano prendere i proventi dei raccolti senza dare nell’occhio.

L’oppio era quindi trasportato – parliamo della maggior parte della quantità prodotta – lasciando i pesci piccoli attraversare il confine a piedi o spacciare piccole dosi – attraverso i voli militari occidentali (britannici e americani in primis) che partivano da Bagram, Kandahar e Kabul (questo dimostra anche il perché, dopo la partenza della NATO, ci sia stata una guerra ibrida tra Emirati Arabi Uniti, Turchia, Qatar, per chi dovesse prendere il controllo degli aeroporti).

Spesso era trasportato verso le basi NATO in Turchia o in Kosovo e da lì smistato. Le persone dei villaggi circostanti erano testimoni e sapevano come funzionava, ma nessuno li ascoltava per le ragioni descritte sopra. Temevano anche per la loro incolumità.

Spesso le basi NATO più attive in questo senso, erano situate in zone dove imperversava la guerra. Era tutto creato ad hoc per permettere di non dare nell’occhio. Questo accadeva con altre risorse che il paese possedeva, come litio, uranio, rame, gas e molto altro.

L’Afghanistan è stato vittima di questa guerra incessante per la droga. Negli ultimi anni poi, si è scoperto anche la presenza di piante naturali come l’efedrina per produrre metanfetamine non chimiche. La colpa ricadeva, come per l’oppio, sui talebani. I capri espiatori perfetti.

Stranamente però, nei bombardamenti NATO, i laboratori più usati per raffinare metanfetamine o eroina non venivano colpiti, ma venivano bombardati quelli ormai in disuso. Questo esemplifica molto bene la tecnica usata per anni. Infine, per dare un esempio di come fosse possibile debellare per davvero la piaga dell’oppio, alcune ricerche condotte negli ultimi due anni, dopo l’arrivo dei talebani al potere, hanno dimostrato come in una delle zone con la più alta produzione di oppio del paese per decenni, il distretto di Sangin (provincia di Helmand), la coltivazione sia stata debellata quasi completamente dalle autorità dell’Emirato Islamico. Ciò dimostra che tutte le fandonie raccontate dai media e dalla narrativa ufficiale non stavano in piedi. I contadini coltivano l’oppio non perché volevano diventare miliardari o con scopi malefici. Ma perché volevano riuscire a sfamare le famiglie, guadagnando una percentuale irrisoria dei veri proventi. I talebani sono riusciti a dare un’alternativa, coltivando cereali.”

© Foto Filippo Rossi

  •  Quali sono state le altre cause di questo intervento armato, il primo post 11 settembre e quali conseguenze hanno comportato per un paese che era già così fortemente e storicamente martoriato?

“Ricollegandoci alla risposta precedente, l’oppio può già di per sé dare una risposta esaustiva. Ma c’è di più. Negli anni dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan (1979-1989), molti ricercatori avevano trovato riserve di risorse oggi molto importanti. Oltre a giacimenti di petrolio e gas, trovarono risorse come litio, rame, oro, argento, bauxite, beride, barite, ferro.. . Era un paese ricco.

Tuttavia, oltre a ciò, l’Afghanistan rimaneva un paese geopoliticamente cruciale e lo divenne ancor di più dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando si scoprirono giacimenti di gas naturale in Turkmenistan e Azerbaijan.  Le multinazionali del petrolio e del gas americane volevano sfruttare le risorse facendole passare attraverso l’Afghanistan fino alle coste del Pakistan, evitando l’Iran e la Russia.

Nel 1996 si procedette ad accordi tra il governo turkmeno, quello afghano (rappresentato dai talebani) e quello pakistano con le compagnie del settore americane, la principale delle quali, era la Unocal (della quale, stranamente, l’ex presidente Karzai fu anche impiegato). Se all’inizio le cose sembravano andare per il verso giusto, presto i talebani decisero di non aderire al progetto, diventando un ostacolo a quelle multinazionali che volevano sfruttare i giacimenti turkmeni il più possibile per rifornire il mercato asiatico.

Il progetto colò a picco quando i talebani, nel 1997, si rifiutarono di far passare un eventuale gasdotto dal loro territorio. I Talebani, sicuramente aiutati a suo tempo dalla CIA a prendere il potere per riportare il controllo nel paese in preda al caos e quindi permettere di aiutare certi interessi economici, cominciarono a diventare davvero scomodi.

Il dettaglio da notare è che molti dei rappresentanti delle multinazionali presenti negli accordi e vicini a Unocal, come Chevron, Exxon, ecc… sarebbero poi divenuti la nuova amministrazione del governo americano del presidente George W. Bush. il quale decise di creare appositamente il suo team per difendere gli interessi delle lobby petrolifere e non solo.

Inoltre, la necessità di una nuova guerra si avvistava anche sotto il profilo delle compagnie di armamenti, spesso molto legate alle lobby petrolifere condividendo direttori, consigli di amministrazione ecc.. .

Ebbene, con il pretesto dell’11 settembre e senza nessuna autorizzazione del Consiglio di Sicurezza Onu, gli USA dichiaravano guerra all’Afghanistan, paese che fino a prova contraria non era responsabile dell’attentato, come oggi sappiamo in maniera – oserei dire – esaustiva.

Le carte in tavola furono mescolate bene, facendo confondere talebani ed il gruppo Al-Qaeda, anch’esso costituito e sostenuto da CIA e USA per tanti anni.

La storia la conosciamo bene. Penso di aver dimostrato come le vere ragioni non fossero quelle millantate come la ‘democrazia’ e lo ‘sviluppo’ o la ‘guerra al terrorismo’, anche perché il terrorismo è sostenuto proprio dagli stessi attori che lo combattono per creare i pretesti giusti per continuare a guadagnarci.”

  • Possiamo citare almeno un paio di storie fra le più significative di quelle che ha raccolto?

“Le storie che ho raccolto hanno dei risvolti talvolta incredibili, a volte semplicemente ‘ridicoli’: non solo perché dimostrano l’assurdità della guerra, ma anche perché mettono a nudo quanto una popolazione cercasse di sopravvivere in tutti i modi.

Le ricordo tutte con grande amarezza, ricordando le facce di chi me le ha raccontate. Incredibile è la storia di Khairullah, provincia di Uruzgan. Mentre dormiva con la sua famiglia, ancora piccolo e innocente, lui si ricorda dei soldati americani quando gli piombarono in casa saltando le mura di cinta. Presero suo padre, lo portarono sull’uscio di casa e gli spararono in testa di fronte a tutti i membri della famiglia. I suoi due fratelli più piccoli, accorsi per abbracciare il cadavere del padre, furono freddati. Non avevano nemmeno 10 anni. Suo zio fu arrestato e portato in una prigione. Solo qualche soldato dell’esercito afghano si presentò qualche giorno dopo scusandosi per l’accaduto.

Nessun soldato straniero si degnò di rispondere. Un modus operandi spesso utilizzato. Negare sempre, anche quando le prove erano schiaccianti.

Un’altra storia terribile è quella del prof. Nanol Khil, villaggio di Khanullah. I soldati entrarono in casa sua, presero le donne portandole fuori dal muro di cinta. Gli uomini, ovvero lui ed i suoi figli ormai grandi o adolescenti, furono messi in ginocchio in fila. I primi due furono freddati con un colpo alla testa da un soldato americano. Il terzo, in preda al panico, si lanciò sul padre urlando ‘papà, vogliono uccidermi’, mentre un proiettile lo trapassava. Risparmiarono solo lui ed un altro fratello, che in quel momento non era in casa ma lavorava in un centro medico della zona.

Uno dei suoi figli che morì quella notte, serviva addirittura l’esercito afghano. Quando la moglie sentì i colpi d’arma da fuoco, da fuori le mura chiese ad un soldato americano di guardia: “A chi hanno sparato?”, il soldato rispose: “alle bestie, non si preoccupi”.

Sono piccoli riassunti di ciò che si può leggere nel libro. Ci sono storie di ogni genere, comprese poesie e racconti comici che ritraggono l’immaginario collettivo dell’afghano medio nei confronti della NATO.”

© Foto Filippo Rossi

  • Afghanistan 2024. Qual è la situazione dopo il ritiro degli Usa del 2021 e cosa rimane dell’influenza occidentale dopo una guerra durata venti anni?

“Dopo il ritiro USA e della NATO nel 2021, il paese è stato pesantemente isolato in maniera, direi, ridicola. I soldi della sua banca centrale sono stati congelati, un obbrobrio per chiunque capisca un minimo di politica monetaria, creando inflazione e favorendo un momento di grande carestia proprio perché si rende difficile importare ed esportare.

In particolare, con l’occupazione si era passati da un’economia di sussistenza ad un’economia assistenzialista. È una strategia che ben conosciamo. Entrare in un paese, distruggerne l’economia, costringerlo a misure di austerità e legarla a un debito impagabile per favorire l’arrivo di fondi occidentali di ‘beneficenza’ falsi e l’acquisto di proprietà, fabbriche, miniere a prezzi bassissimi.

Nel caso afghano, come se non bastasse, l’agenzia USAID, l’agenzia del governo americano per lo sviluppo, pagava il salario di tutto il governo afghano e il budget di quest’ultimo era quasi interamente coperto dagli USA. Era tutto in mano agli stranieri o ai suoi scagnozzi.

L’agricoltura, per esempio, non esisteva quasi più. Dopo il 2021, la maggior parte dei centri di salute sostenuti da agenzie internazionali, erano stati abbandonati come se la popolazione fosse nemica. L’Afghanistan importava ormai quasi solamente risorse primarie. Era un disastro. Piano piano il nuovo governo ha cercato di ovviare con misure, ma senza grandi risultati. Ora l’Afghanistan cerca di cambiare paradigma, avvicinandosi alla nuova alleanza rappresentata dai BRICS e il nuovo mondo multipolare che sta nascendo.

Il nuovo governo inoltre, è vero che ha adottato misure più restrittive in alcuni ambiti, ma la situazione per la maggior parte della popolazione non è cambiata per nulla. La povertà impellente è rimasta il primo e unico dato che conta. In sostanza, l’Occidente ha lasciato il paese ai governanti di prima ma ancora più distrutto e dipendente dall’esterno di quanto non lo fosse già nel 1996, quando arrivarono i talebani al potere per la prima volta. E, se posso permettere una mia personale deduzione, questo non è avvenuto a caso ma con grande consapevolezza.

Mi spiego meglio: spesso si parla di una missione fallimentare che per 20 anni avrebbe fatto spendere ai governi di mezzo Occidente trilioni di dollari per ottenerne poi il nulla assoluto ed un ritorno ad un equilibrio come quello che preesisteva con l’arrivo dell’occupazione.

E perché, allora, tutto ciò? In realtà il potere non è passato di mano in mano, ma ha semplicemente cambiato faccia. I leader talebani sono vittime e fantocci dell’élite, come lo erano in precedenza ed il loro operato lo dimostra, perché non è per nulla in linea con ciò che molti talebani hanno pensato di difendere.

Molti talebani sono rimasti delusi dal cambiamento, sperando in un paese aperto, libero, che potesse regalare nuove speranze alla popolazione. Ma tutto è rimasto come prima, a volte peggiorando.

L’élite talebana è corrotta quanto quella della repubblica che controllava prima il paese. Tutte le notizie che gravitano attorno all’Afghanistan, come i diritti umani, le donne, ecc… sono solo pretesti per distogliere gli sguardi dal vero problema.”

  • Quale?

“Il vero problema dell’Afghanistan non sono i problemi di sviluppo che vengono sempre descritti come le piaghe da risolvere. Ma ciò che produce e peggiora questi problemi.

Parliamoci chiaro: è un problema generale dei paesi in via di sviluppo che non possono sviluppare un’economia sebbene ne abbiano le capacità e le risorse. Ma non è l’argomento di questa intervista.

© Foto Filippo Rossi

Le vere ragioni stanno quindi nella strategia adottata dalle élite che controllano il cambio politico di cui abbiamo già parlato. Quindi, questi pretesti sono stati usati per nascondere un evidente cambio di paradigma e di strategia in Afghanistan.

Bisogna immaginare che in ogni operazione criminale, ogni invasione, ci deve essere una strategia ben definita su come agire per manipolare l’immaginario comune e soprattutto per nascondere le vere ragioni in maniera meticolosa.

Ripeto, ai livelli più alti, nulla avviene per caso. Nemmeno il fatto di investire miliardi per supportare il cambio di ideologia, creare nuovi conflitti sociali, pagare i mass-media per spargere le notizie. Fa anche questo parte della grande strategia di conquista.

Nel caso afghano, il ritorno dei talebani, la fuga della classe corrotta del paese (non solo i politici, ma tutta la ‘corte afghana occidentalizzata” che era nata con l’arrivo dell’occupazione, mi riferisco a giornalisti, artisti, medici..) è dovuta avvenire in modo eclatante e caotico, ma soprattutto rapido per non destare sospetti.

Non è un caso che i servizi di intelligence fossero al corrente degli sviluppi settimane, se non mesi, prima. Tutto era pianificato nel dettaglio. L’unica cosa che forse è sfuggita di mano è stato l’assalto della popolazione civile all’aeroporto di Kabul, ma anche in questo caso, si potrebbe dedurre che mentre i media si concentravano su quelle scene terribili nessuno si preoccupava di cosa fosse successo in quegli ultimi giorni, cioè come potesse essere accaduto che in un battibaleno i talebani fossero entrati a Kabul senza nessuna resistenza.. . La distrazione perfetta.

Per riassumere, quindi, gli eventi che vengono evidenziati e ai quali viene dato un certo peso, spesso sono pretesti per distogliere lo sguardo. La causa femminile serve ancora ora a infamare il nuovo regime, nascondendo le nefandezze commesse durante i 20 anni di occupazioni e nuovi interessi che potrebbero essere emersi.

Il cambio di regime in Afghanistan è da leggere come un cambio di strategia dell’élite, il che ha permesso di mantenere lo status quo. E la dirigenza talebana ne era ben cosciente, perché erano tutti in contatto con tutti. Sappiamo benissimo che le alte sfere NATO, la presidenza afghana e personaggi di peso politico nel paese, erano tutti in contatto con i talebani durante gli anni di guerra.

Sappiamo che molti ministri del governo talebano erano in stretti rapporti, se non sostenuti, da fondi che provenivano dall’Occidente (come quelli del Qatar). Sappiamo anche che il presidente Ghani, probabilmente su commissione USA, ha finanziato e foraggiato lo Stato Islamico Khorasan a Kunar e Nangarhar. Insomma, ciò dimostra quello che ho detto prima, ovvero che nulla accade per caso ai livelli più alti. Ha una sua logica ben precisa.”

  •  Pochi giorni fa gli Usa hanno stanziato ben 95 miliardi di dollari per l’Ucraina (61 miliardi), Israele e Taiwan. L’orizzonte di quella che Giulietto Chiesa nel suo libro del 2002 aveva definito “guerra infinita”, sembra diventare realtà. Al contempo, l’Italia ha firmato con gli Usa un accordo contro “la disinformazione”. Come cercheranno di spegnere la libera informazione e come difenderci?

“Ciò che in Afghanistan, in Iraq, in Jugoslavia, in Libia non era così evidente, lo è diventato con il conflitto ucraino: lo sfacciato ruolo giocato dalla NATO.

La NATO (e la politica corrotta occidentale) non ha più potuto nascondersi dai suoi crimini dando sfogo a molte persone che hanno deciso di ribellarsi e parlare. Io stesso ho deciso di non andare a seguire quel conflitto rifiutando la propaganda. E le assicuro che le retribuzioni erano e sono allettanti in termini pecuniari, ma anche di ‘gloria’ personale.

Questo ‘risveglio’ generalizzato ha portato ad un irrigidimento della censura, come è successo a me, ma anche attraverso un metodo già usato durante la pandemia, ovvero la creazione e la fomentazione dell’odio per chi non è allineato al pensiero unico. Non solo fra coloro che fanno quotidianamente la propaganda del potere (i giornalisti del mainstream), ma soprattutto attraverso la popolazione stessa.

È in atto un’operazione distruttiva all’interno della società, dove le persone hanno paura di esprimersi temendo ritorsioni, insulti, licenziamenti.

Un esperimento di ingegneria sociale. È quello che succede anche in Svizzera, che io definirei “soft fascism“, il metodo più efficace nel mondo: se parli e vai contro la narrativa ufficiale, non ti uccidiamo, ma ti distruggiamo la vita.

Ecco perché combattere con le parole, senza la violenza e continuare ad insistere alzando la testa, è l’unico modo per sconfiggere questa piaga. Non c’è altra scelta che continuare a parlare e raccontare, a costo di perdere amicizie o colleghi. Solo così si può riuscire a sconfiggere il male.

Più siamo meglio è. La paura è l’inizio di tutti i mali ed è proprio attraverso questo strumento tremendo che ci controllano e ci manipolano.

Oggi pubblico questo mio libro cosciente del fatto che sarò sotto accusa. Ma non mi interessa: perché sono sicuro di ciò che scrivo, di ciò che dico. Anche se ho qualcosa da perdere di materiale, in realtà preferisco non perdere la via del bene, della verità e soprattutto di lottare per il futuro dei miei figli.  Grazie.”

© Foto Filippo Rossi

Filippo Rossi è un giornalista freelance italo-svizzero nato a Lugano. Dopo gli studi in scienze politiche, letteratura e linguistica araba e portoghese all’università di Zurigo, Rossi comincia la sua carriera nel giornalismo, specializzandosi in conflitti e crisi a livello internazionale. Negli ultimi 10 anni, Rossi ha coperto tutti i conflittiattuali, dall’Iraq, la Siria fino all’Afghanistan, il Caucaso e l’Africa. In particolar modo, ha passato molto tempo viaggiando nei più remoti meandri dell’Afghanistan, paese con il quale ha intrattenuto una relazione molto stretta. Nel 2020 si laurea alla University of Westminster di Londra in Giornalismo televisivo e radiofonico ritornando sugliscenari di guerra fino al 2022, anno dell’invasione russa dell’Ucraina. Rossi decide di non partire per motivi legati all’etica professionale, dedicandosi principalmente alla stesura di opere e a un altro tipo di giornalismo, più d’inchiesta. Si è reso conto della manipolazione mediatica e ha deciso di allontanarsi dal mondo del giornalismo mainstream. Nel 2021, inoltre, Rossi ha pubblicato il suo primo libro, edito da Dadò Editore (Locarno, Svizzera) e intitolato “Il Gioco Impossibile”, vincitore, tra gli altri, anche del Premio Internazionale di letteratura della città di Como (edizione 2022). E’ autore di “NATO per uccidere – I crimini contro i civili in Afghanistan“, Arianna Editrice, Edizioni Macro (2024).

Fonte: comedonchisciotte.org