Nel vangelo secondo Marco (Travaglio), il mondo pressappoco funziona così. Da una parte c’è quel cappuccetto rosso chiamato Italia, ostaggio del lupo cattivo Berlusconi e di altri manigoldi di destra e sinistra. Dall’altra, ci sono gli Stati Uniti o l’Europa (quella con la “e” maiuscola), che per fortuna ci indicano la retta via. Il ragionamento del più celebre giornalista “giudiziarista” italiano – e di tanti suoi mentori (il quotidiano Repubblica) ed epigoni (dai giovani cronisti de “Il Fatto” all’ultimo blogghettaro di provincia) – è semplice semplice: là (all’estero), chi sbaglia, paga; mica come qua, nel Belpaese dei cachi e dei furbi.

‘Ste favolette, per carità, hanno più di un pregio. In primis, sono facili da capire. E in  secundis, c’hanno pure un finale edificante. Ma hanno pure un grosso difetto: con la realtà, purtroppo, hanno spesso poco a che fare. E basta avere la pazienza di leggere, anche distrattamente, qualche giornale dei “civili” o “civilissimi” Paesi di cui sopra, per rendersene conto.

Tanto per dire. Questa settimana, Francesco Guerrera – che non ha l’onore di fare l’ospite d’onore ad Annozero e non ha neppure una rubrica fissa su “Il Fatto”, ma è pur sempre un giornalista del Financial Times – ha scritto un lungo editoriale dal tono parecchio sconsolato. Titolo: “La crisi con innumerevoli vittime e nessun colpevole”. Succo: negli Stati Uniti, la grande recessione ha travolto poverazzi e gente comune, ma i soliti padroni del vapore (o meglio di Wall Street) se la sono sfangata alla grande. Perché, evidentemente: oltreoceano, chi sbaglia, paga. Ma sempre fino a un certo (dis)onestissimo punto.

I fatti, del resto, son quelli che sono. La crisi economica che ammorba buona parte dell’Occidente è esplosa quando – nel non lontano autunno 2008 -, una nutrita pattuglia di banche e fondi di investimento a stelle e strisce  hanno scoperto (nel giro di qualche settimana; e quasi per caso, diciamo) che erano a un passo dalla bancarotta. Da allora ad oggi: 8,4 milioni di persone, negli States, hanno perso il loro posto di lavoro. E oggi quasi 42 milioni di americani devono servirsi di “food stamps” – buoni passati dal governo ai poverazzi – per mettere insieme il pranzo con la cena.

Naturale chiedersi, come fa appunto il giornalista del Financial Times, se non ci sia qualcuno – ai piani alti di banche e istituzioni finanziarie – che non abbia commesso, più o meno in buona fede, qualche errore di troppo e non debba pagarne salatamente il conto. Perché, sì, va bene: qualche grosso manager si è pure dimesso (portandosi via, spesso e volentieri, buonuscite milionarie). E sì: è anche vero che qualche mago della finanza particolarmente allegra – vedi il caso di Bernard Madoff – è pure finito in gattabuia. Ma francamente tutto questo appare un po’ pochino per una serie di bancarotte che, come ricorda Guerrera, ha letteralmente “distrutto aziende e lasciato milioni di persone senza casa e senza lavoro”.

Ma tant’è: osserva il giornalista del Financial Times, “i processi penali” contro i magnati della Finanza a stelle e strisce, “sono praticamente inesistenti e anche le cause civili sono state pochissime”.

Ma dai?

E la tanto decantata (in Italia, s’intende) giustizia a stelle e strisce? E il tanto celebrato (sempre in Italia) senso di responsabilità dei concittadini di Barack Obama? E beh, quelli, per questa volta, sono andati un tantino a farsi benedire. Anche perché, ha scritto Guerrera, “la maggior parte delle società finanziarie, dei regolatori, delle agenzie di rating e dei media non sono stati capaci di vedere la tempesta arrivare”. Tradotto: ai piani alti, hanno sbagliato un po’ tutti. E quindi? E quindi e per usare le parole di un grosso avvocato di Wall Street citato sempre dal giornalista del Financial Times: se un mio cliente finisce nei guai “la mia risposta è: il mio ragazzo potrebbe aver fatto qualcosa di male, ma anche tutti gli altri facevano la stessa cosa”.

Tutti colpevoli uguale nessun colpevole. Suona stranamente familiare, no?

Ma passiamo dagli Stati Uniti all’Europa con la “e” maiuscola. Perché è la realtà che ci riguarda più da vicino. Perché qui oltre alle banche, stanno fallendo per giunta gli Stati. E perché anche qui, di colpevoli e responsabili – con nomi e cognomi – non si vede manco l’ombra.

L’Irlanda, per esempio.

Dublino – per anni – è cresciuta a ritmi da primato: secondo il World Factbook, il suo Pil è aumentato, in media, del 6% all’anno dal 1995 al 2007. Poi, il tracollo. Nel 2008, il Prodotto interno lordo della ex Tigre Celtica è campitombolato del 3%; nel 2009, addirittura del 9%. E, oggi come oggi, la swinging Dublino degli U2 è solo un vago ricordo: il Paese – travolto da uno tsunami di debiti – finirà presto nelle mani del Fondo monetario internazionale e del nuovo nuovento Fondo europeo per la stabilità finanziaria. Non un crac conclamato, ma un default tecnico. Epperò: sempre di fallimento si tratta.

Che sarà mai successo? Anche in questo caso, chi ha avuto la pazienza di leggere i giornali dei “civilissimi” Paesi di cui sopra, ha trovato una spiegazione piuttosto convincente, anche se non proprio entusiasmante. Secondo il quotidiano britannico “The Telegraph” (che cita dati forniti dal presidente della Banca centrale Irlandese, Patrick Honohan): nel 2006 – ossia due anni prima della vera e propria esplosione della crisi – due terzi delle famiglie che stavano comprando la prima casa, aveva un mutuo pari al 90% del valore dell’immobile; un terzo, invece, aveva un mutuo pari – addirittura – al 100% del valore dell’immobile. In pratica: le banche avrebbero prestato soldi pure ai morti se fosse stato possibile (e sempre che non sia successo davvero).

Non stupisce, quindi, che il sistema bancario irlandese si sia liquefatto: la prima banca ad alzare bandiera bianca è stata la Anglo Irish Bank, che è fallita de facto, ed è stata nazionalizzata nel 2009; ed altre ne sono seguite. E non stupisce neppure il fatto che – nel pieno della crisi – il governo irlandese sia stato costretto a garantire tutti i debiti delle banche di Dublino e dintorni (pari, circa, a 400 miliardi di euro; ovvero oltre il doppio del prodotto interno lordo dell’Irlanda, che nel 2009 è  stato pari a 172 miliardi di euro).

Quello che stupisce – semmai – è che in Irlanda il business prosegua as usual. Tanto per capirci: secondo un articolo pubblicato oggi dal Times (e purtroppo non disponibile on line), Sean Fitzpatrick – ex presidente della Anglo Irish Bank dei crac e degli scandali – spende sereno le sue giornate tra la sua tenuta in Irlanda e il club di golf “Las Bisas” di Marbella, in Spagna. E dire che Mr Fitzpatrick – al momento di dimettersi, nel 2008 – aveva pure ammesso di essersi fatto concedere un prestito dalla sua stessa banca, pari a “solo” 87 milioni di euro; prestito, va da sè, che si era preoccupato di tenere ben nascosto a tutti (azionisti compresi) fino a crac conclamato. Epperò: l’ex presidente della Anglo Irish Bank è pure lui tutt’altro che un’eccezione. Per esempio. Anche Brian Goggin l’ex numero uno della Banca centrale irlandese – che evidentemente era troppo distratto per vigilare a dovere su quello che stavano combinando gli istituti di credito del suo Paese – continua sereno a godersi i suoi soldi (il suo ultimo stipendio, sempre secondo il Times, è stato di 2 milioni di euro). E, sempre stando a quanto scrive il Times, la lista di magnati (e pure politici) furbacchioni potrebbe continuare. Perché pure a Dublino: chi ha avuto, ha avuto; e chi ha dato, ha dato.

Anche questo suona vagamente familiare, nevvero?

A questo punto, però, urge davvero concentrarsi sull’Europa con la “e” maiuscola, cioè Bruxelles.

Sempre secondo il “Telegraph”, infatti, a spingere gli irlandesi a indebitarsi a più non posso è stata – non solo, ma anche – la politica monetaria della Banca centrale europea. In breve: dal 1998 al 2007, i tassi di interesse reali, in Irlanda, sarebbero stati negativi (meno 1% in media). Che vor dì? Per metterla giù in maniera tecnica: vor dì che l’inflazione in Irlanda era alta e superava il cosiddetto tasso di sconto, cioè l’interesse base sul debito che è appunto fissato dalla Banca centrale europea. Ma per farla un po’ più semplice: altro che tasso fisso e variabile, i mutui -in Irlanda – erano semplicemente a prezzo di saldo. Anzi: più che saldo, regalo.

Epperò e anche qui: come mai – dopo che ben due Paesi dell’area euro sono falliti (prima la Grecia e poi l’Irlanda) – nessuno contesta il presidente della Banca centrale europea, il francese Jean Claude Trichet? Trichet occupa il posto che occupa non da ieri, ma dal 2003. Possibile che non si sia mai accorto del problema, prima dell’inevitabile patatrac? E se se ne è accorto, perché non ha fatto un tubo (a parte tromboneggiare sui giornali di mezza Europa)?

Sia ben chiaro: chi scrive non auspica il ritorno a torce e forconi o la caccia al banchiere (centrale e non). Tutt’altro. E’ evidente che nessuno ha obbligato le famiglie – statunitensi o irlandesi che siano – a stracaricarsi di debiti. E ora che è arrivato il conto, è giusto che ognuno paghi la sua parte. Ma appunto: la sua parte e non quella degli altri. Ergo: se qualcuno ha  più responsabilità – in alcuni casi  politiche, in altre anche penali – sarebbe giusto che pagasse di più. Perché vivremo pure – per parafrasare il nome della testata economica più famosa del mondo – in Financial Times (ovvero in tempi in cui la finanza conta più di qualunque altra cosa). Ma questo non significa che chi lavora o opera in questo settore debba avere una specie di salvacondotto.

Di più. Sulla graticola e sotto i riflettori sarebbe ora che finissero non solo le persone, ma pure – appunto – certe politiche di fondo. Perché  chi – oggi come oggi – può davvero pensare che i sedici Paesi dell’euro possano andare avanti con una sola moneta e sedici politiche fiscali ed economiche diverse, senza che altre Dublino o Atene si profilino all’orizzonte? Non sarebbe, una buona volta, il caso di porsi delle domande su questa integrazione tutt’altro che perfetta?

Il quadro, insomma è quel che è: per nulla roseo. Ma questo è il contesto in cui l’ex Belpaese si muove. O meglio: questo è il contesto in cui l’Italia dovrebbe muoversi, se non fosse paralizzata e pietrificata attorno ai propri tic e a un presidente del consiglio che da ormai un anno non governa più e che però rimane l’alfa e l’omega della nostra, se così la si può ancora chiamare, politica. E pure l’ossessione di molti giornalisti. Che però – almeno per quel che riguarda la  santificazione di tutto quel che non è made in Italy – potrebbero e dovrebbero cambiare registro.

Gli anni duemila, quelli della Tigre Celtica e degli Stati Uniti superstar, sono finiti – anche cronologicamente, visto che il 2011 è alle porte. Vediamo di aggiornarci e di aggiornare pure gli italiani, sì?

 

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